Capitolo VI — La sera di Darin

La sera di Darin

La porta si richiuse alle sue spalle con il suo gemito di vecchia che protesta contro il mattino anche quando è sera; eppure, quella sera, la protesta aveva qualcosa di soddisfatto, come il borbottio d’un gatto che si stende proprio dove voleva. Darin rimase un battito di ciglia sulla soglia, le spalle ancora umide dell’aria che sapeva di pietra, fumo, grasso e scale. Dentro, la casa gli avvolse i polsi come una sciarpa: pane tiepido, cenere buona, il panno umido che gocciolava vicino alla corda del focolare, e quel filo di miele — un’ostinazione della madre — che si sentiva appena e metteva in riga gli odori poveri come una maestra paziente mette in riga i bambini.

La stanza grande — che grande non era — teneva insieme tre vite come tre dita in un guanto. Le travi basse, segnate da inverni severi, creavano ombre che si piegavano sul tavolo come mantelli. Il tavolo, bestia docile, mostrava la sua spina: due assi sorelle tenute da una terza un po’ storta, nodi vecchi come vecchie ferite; sopra, tre scodelle di terracotta, una pagnotta spaccata che fingeva durezza in crosta e prometteva resa in mollica, un coltello con memoria di molte cene, due cucchiai di legno curvi come barche anziane. Un lume basso tremolava accanto al pane: la fiamma aveva il respiro di un occhio che fa finta di dormire ma non vuole perdersi la storia.

La madre, inginocchiata davanti al focolare, muoveva piano il paiolo come si culla un bambino con la febbre. Aveva una bruciatura bianca sul dorso della mano destra — una riga tirata anni prima dalla fretta — e i capelli raccolti in una crocchia che a fine giornata cedeva qua e là come un muro antico. Sollevò lo sguardo senza voltare il volto: «Là» disse, indicando con il mento la panca. Non era un invito: era quella sillaba di casa che contiene ordine, cura, abitudine.

Dal retro entrò il padre con addosso l’odore della terra smossa: un miscuglio di umido e fatica che sapeva di stagione. Le spalle, grandi, gli tenevano la tunica tesa come un aratro fa con il solco. Tossì una volta, il suo vezzo di presenza: “anch’io”.

Darin appese il mantello al chiodo piegato accanto alla porta — chiodo innocente, ruggine addomesticata — si lavò le mani nel catino dove l’acqua era stata portata alla temperatura giusta, quella che lava e non rimprovera, e le asciugò nel panno che odorava di sole vecchio. Sedette. La panca si mosse appena, con il gemito familiare che era solito sentire.

La madre gli posò davanti la scodella. Il brodo fumava con una modestia che faceva bene agli occhi: patate sopravvissute a due stagioni, cavolo con ancora in gola il vento dei campi, fagioli piccoli e testardi, e sopra un filo d’olio che non era ricchezza ma memoria. Il cucchiaio bussò due volte sul bordo: toc, toc. Come la campana della rocca quando segna e non chiama.

«Com’è lassù?» chiese la madre, fissando il vapore. Non domandava per curiosità — la curiosità costa — ma per distribuire il peso della sera nei piatti.

«Freddo giusto» disse Darin spezzando il pane. «Lana, ferro, fumo. E nelle cucine un cane monaco che cammina nella ruota e non smette. Ho fatto quello che dovevo.»

Il padre mosse il cucchiaio, lo tenne mezz’aria, lo posò. «L’hai vista?» Dentro a quella domanda c’era un nome che in casa si pronunciava poco per non sciupare la fibra: la sorella, Maira.

«Sì» rispose Darin. Negli occhi gli tornò il guardaroba alto: i veli bianchi come lune addomesticate, gli specchi onesti che allargano un occhio e stringono una bocca, la foglia di ferro con il vetro verde posata proprio alla fossetta dove il respiro si divide. «Le ho dato la spilla. Al posto giusto.» Lo disse semplice, ma dentro sentiva ancora il peso leggero che il panno gli aveva fatto sul petto per tutto il castello.

La madre lasciò uscire dal petto un sospiro corto; la fiamma parve assentire. «Bene» fece, e quel “bene”, doppio, srotolò un plaid invisibile sopra il tavolo. Bene: per Maira, per la figlia che serve “dove stanno le cose prima d’essere dette”. Bene: per il figlio che sa portare senza far rumore.

Mangiarono. Il brodo raccontò le sue storie di orto; il pane si lasciò intingere con un suono di neve; il coltello rigò il tavolo con segni che non chiedevano scusa. Ogni rumore era parente: la panca con la sua lamentela lunga, la trave con il suo scricchiolio da colonna vertebrale, il paiolo che gorgogliava frasi brevi.

Fu la madre a rompere il piatto del silenzio con una posata di parole: «Domani è sabato.» Il suono della parola sabato entrò nella stanza come fa una festa che conosce la povertà e la rispetta. «Comincia il mercato.»

Il padre si sistemò la cintura come se già gli pesassero i borsoni. «Il grande mercato» confermò. «Sette giorni. Fiera e bando. Le tende verranno su prima dell’alba, quando la piazza ha ancora il respiro della notte.»

Darin raddrizzò la schiena. La parola mercato gli toccò il petto dove prima avevano dormito panno e spilla: un tocco diverso, più largo. Vide con la mente la piazza aprirsi come un occhio, le bancarelle sorgere come funghi, le corde tese tra i pali, i cartigli avvolti, i gabellieri con le piume nel cappello, il banditore sulla botte che prova la voce contando i chiodi.

«Non andrai in fucina» disse il padre senza alzare molto la voce, ma la decisione stava già in piedi da sé. «Vieni con me. Gli occhi servono più delle braccia, domani. Le braccia le lasciamo a Ralf se ha da far ferro per chi corre; tu guardi, apprendi, conti.» Il verbo contare in bocca al padre voleva dire tre cose: pesare la merce, capire gli uomini, raccogliere futuro.

La madre annuì. «Sono settimane che tutti aspettano» disse, e nel dire “tutti” pareva contare case e cortili. «Vengono da lontano: dai villaggi di sotto i monti, dai feudi che non ci vogliono bene ma vengono lo stesso, dai campi del fiume dove il fango parla chiaro. Portano merci che qui non crescono: stoffe che paiono acqua ferma, uova di colori sbagliati, coltelli che tagliano le bugie, bottiglie con dentro barche che non escono, piatti che suonano se li guardi di storto.»

«E cose più strane» aggiunse il padre, con una piega di labbro che era insieme diffidenza e divertimento. «Ogni anno viene fuori qualcosa che non sappiamo nominare. Una volta un tizio vendeva dischi duri e lisci, grandi quanto una mano, con un buco al centro: li infilava su un palo e diceva che parlavano quando giravano. Parlava lui, in verità, e i dischi fischiavano se gli entrava il vento. Un’altra volta, una lanterna che non voleva stoppino: diceva che bastava il sole del giorno per farla brillare la notte. S’illuminava mezza, e l’altra mezza faceva la faccia storta.» Scosse il capo. «Meraviglie da bancherella.»

La madre strinse il fazzoletto; non rideva. «Meraviglie o malanni, tutto passa dalla piazza. E con le merci, parole. Le parole più dei sacchi: quelle non pesano e si spandono.» Posò il mestolo, lo ascoltò come si ascolta un vecchio che ha appena finito di raccontare. «La piazza, domani, avrà il collo lungo. Tutti vorranno vedere.»

Darin sentì allo sterno quella voglia di vedere che gli faceva crescere le spalle senza mettere carne. Il gran mercato era la settimana in cui il feudo smetteva di essere conca e diventava crocevia. Un’apertura, una finestra, un respiro in più. Non disse nulla; spezzò il pane e lo intinse, e intingendo scelse per la mente scorci e dettagli: il nano dei dolci che cambia cappello per ogni giorno della fiera; la ruota dello stagnino che canta; il ciarpamiere che dà un nome a ogni pezzo per vendergli un passato; il bottaio che batte sui cerchi per sentire la nota del legno; le corde tese che fanno musica sotto il vento; i corvi che contano più corto quando la folla è tanta.

«Domattina ci alzeremo prima della campana» riprese il padre, già dentro i suoi orari. «Passeremo dal granaio del signore: devo vedere quante misure portano giù per la birra. Se è poco, il brodo della piazza diventa rissa. Poi andiamo su alla piazza e ci piazziamo al lato nord, vicino al banco del cestaio: lì passano tutti e non ti perdi niente. Tu guarderai le mani: le mani dicono la verità della merce.»

La madre, come a cancellare un’ombra, aggiunse: «E le tasche. Guarderai anche le tasche: le tue, le nostre e quelle degli altri. Il ladro non è un mestiere: è una malattia che si attacca quando la folla suda.» Poi sorrise di sbieco, come per addolcire. «Porteremo croste e una mela: la mela la mangi pian piano, perché la bocca non si metta a chiedere.»

Il lume vacillò e si riprese. Il paiolo si quietò. La panca fece il suo lungo scricchiolio di stagione.

«E Ralf?» chiese Darin, all’improvviso col pensiero alla fucina. «Se vado con te, domani in fucina…»

«Ralf sa contare i giorni» lo interruppe il padre, senza durezza. «Il primo giorno di mercato la fucina batte più piano: chi deve farsi ferri nuovi viene dopo, quando i soldi del primo giorno hanno già fatto il giro. Passerai da lui all’alba e gli dirai che vieni con me. Gli piacerà sapere che gli occhi imparano.» E nell’ultima parola — imparano — c’era per il padre una forma di futuro che non dava nell’occhio.

La madre, che aveva ascoltato misurando il respiro, mise sul tavolo una ciotolina con due olive conservate nel sale: rarità che teneva per le sere che chiedono un sì. «Domani si vede gente,» disse. «E la gente porta storie. Non tutte ci appartengono.» Poi, quasi parlando al fuoco: «Eppure, ascoltare fa bene anche quando non sappiamo cosa stiamo ascoltando.»

Darin pensò a Maira tra i veli. La immaginò ancora con la spilla al collo, il vetro verde che prendeva luce senza volerlo. Domani — si disse — lei non sarebbe scesa subito: la Signora il primo giorno di fiera scende sul tardi, quando la piazza ha già aperto la bocca e chi comanda può infilarci la frase. Gli tornò in mente la voce che non aveva sentito in sala grande, quella che sta tra il sì e il no come una lama di piatto: chissà come dice il mercato, quella voce.

La madre si alzò per rullare la brace in un anello più stretto; posò un ciocco corto, quello che dura finché si sparecchia. «Ti metti quel grembiule scuro di casa» disse senza guardarlo. «Il mantello lo tieni allacciato ma aperto: non voglio che sudi prima di mezza mattina. E niente collane di spago al collo: chi vende strappa ciò che è legato. Le mani pulite. Le scarpe legate due volte. E non toccare mai due cose insieme: ti si confonde il prezzo.» Parlava come si impastano le regole, con i pugni.

Il padre intanto si sistemava mentalmente i giri: «Prima i cereali, poi il sale, poi gli attrezzi.» Gli occhi gli si fecero stretti come quando il sole mente. «Quest’anno ci vogliono due roncole buone. La palude ha allungato erbe che non s’erano viste. E se troviamo spago che non ride, lo prendiamo.» Sorrise appena, ricordando: «Lo spago dell’anno scorso rideva troppo, e le reti si aprivano per divertirsi.»

«E i gabellieri?» chiese la madre, con quella ruga che le arriva al naso quando pensa alle tasse. «L’anno passato hanno contato due volte i sacchi di cicoria e mezza volta quelli di grano. Domani stai attento alla penna che somma.» Il padre alzò la mano come a promettere uno schiaffo al conteggio. «La penna non somma se la guarda un occhio.» E accennò al figlio: «Due occhi sono meglio.»

La sera, intanto, si posò sulla stanza come una coperta finalmente trovata. Le scodelle si svuotarono senza far rumore; il coltello si pulì contro una crosta che non chiedeva lamento; il panno asciugò il bordo del tavolo con quelle carezze geometriche che la madre dava agli oggetti quando voleva dire “basta così”. Fu in questo piccolo spazio che la madre — come se nulla — infilò una frase lunga: «Domani tocca anche al cuore stare dritto. La fiera non è solo cose: è sangue che corre e occhi che si allungano. Non voglio vedere braccia gonfie di voglia. Voglio passi giusti.» La disse al tavolo, ma il tavolo non rispose per non sgridare le gambe.

Darin annuì. Sentiva già il tirare del giorno che arrivava, come quando si tende una corda per provarne la musica. Si concesse un’ultima fetta; la mollica gli si appiattì al palato con riconoscenza. Spostò la scodella, posò il cucchiaio. Il legno della cassettiera lo accolse con il suo cigolio di grazie quando ripose gli utensili. Il lume balbettò, poi si fece fermo.

«Allora, domattina» disse il padre, alzandosi con i due passi da contadino che rimettono dritto il mondo: «prima della campana, tu passi da Ralf, dici che non vieni e che lo saluti col pugno. Poi mi aspetti alla trave del corvo. Se il corvo non c’è, conti le pietre — undici — e fai un giro. Io arrivo.» Nel numero undici di Aldebrand, che gli era rimasto addosso, Darin ritrovò il castello come un sapore in fondo alla zuppa: lontano, ma presente.

La madre raccolse i piatti nel catino; l’acqua parlò a mezze frasi. «E metti nel sacco la tazza di latta» aggiunse. «Alla fiera l’acqua è cara e la sete è furba.»

«Metto anche il coltello piccolo» disse Darin, toccandosi la cintura per misurare il posto. «Quello curvo che Ralf chiama il sopracciglio del ferro.» Il padre assentì: «Il sopracciglio basta. Le lame dritte, domani, le portano in piazza quelli che vogliono sapere chi sei. A noi bastano mani e occhi.»

La cena finì. Non lo disse nessuno: lo dissero la scopa posata vicino all’uscio, il paiolo che si quietò in un cerchio di brace, la panca che non ebbe più voglia di lamentarsi. La madre diede un colpo piano all’aria come a togliere al giorno l’ultima briciola; il padre sistemò due ciocchi per la veglia corta. Darin si alzò e sentì la casa assestarsi sotto la sua altezza, come una scarpa che si ricorda di lui.

«Domani» disse piano, senza aggiungere altro.

«Domani» ripeterono loro, ognuno con il mestiere in bocca: la madre come una preghiera pragmatica, il padre come un conto che torna.

La sera era pronta a chiudere l’occhio. Ma prima, come accade nelle case dove si ama senza parole, la madre si avvicinò al figlio e con due dita gli tolse dal colletto una briciola che non c’era: il gesto bastò a benedirlo. «Quando vedi troppo,» mormorò, «respira e guarda la tua mano. Ti dice che sei di qui.»

Darin annuì. Nella tasca il niente della spilla diventata assenza fece il suo piccolo pieno: un’ombra precisa, come il posto nel pagliericcio dove ogni notte il corpo ritorna. Pensò alla piazza che all’alba avrebbe cambiato pelle, ai pali che sarebbero cresciuti come alberi di una foresta improvvisa, alle corde tese — corde da suonare, da stendere, da rubare — e alle voci: voci che sanno, voci che inventano, voci che barattano.

Il lume gli fece un inchino. La madre soffiò: la fiamma si ritirò con eleganza, lasciando dietro di sé una striscia di buio educato. La casa cambiò respiro: dal parlare passò al vegliare. Il padre chiuse con l’asse la bocca del focolare; la brace restò a pensare sotto la lamina.

Darin posò una mano sulla porta interna come si posa la mano su una fronte; poi salì i cinque gradini di legno — uno traditore come sempre — verso il pagliericcio che lo aspettava con la fossetta giusta. Non andremo ora nella stanza: la notte ha ancora da dire in cucina. Ma il domani, già, gli era salito nelle caviglie.

La casa, con il lume ormai spento, sembrava aver cambiato pelle. Le pareti non erano più muri: erano pieghe di un mantello che teneva dentro i tre corpi e tutto ciò che li accompagnava. Ogni cosa parlava a modo suo: la scopa sul muro respirava piano, il paiolo canticchiava nell’anello di brace con un gorgoglio simile a un vecchio che si racconta da solo, il tavolo scricchiolava ogni tanto, non perché avesse dolore ma per non sentirsi muto.

Darin salì la scaletta con passo misurato. Conosceva quei gradini meglio delle sue stesse mani. Il primo, fedele come un cane vecchio; il secondo, un po’ troppo basso, che costringeva sempre a ricalibrare il passo; il terzo, il traditore, che gemeva come un ubriaco anche sotto il peso di un bambino; il quarto, discreto e onesto; il quinto, quello che si piegava al centro, facendo sempre temere che un giorno si sarebbe spezzato. Ma non si spezzava mai. Ogni gradino era un parente: sapeva quando avrebbe parlato e quando avrebbe taciuto.

Nella sua stanzetta, il pagliericcio lo aspettava. Era steso in un angolo come un compagno di giochi stanco, con l’avvallamento esatto dove il corpo di Darin si era scavato il posto. La coperta, pesante, aveva un odore misto di lana e fumo; il cuscino conservava il sudore di molte notti, ma anche l’eco dei sogni, come una spugna che non si svuota mai del tutto. La finestra, piccola, mostrava un quadrato di cielo. Tre stelle: sempre loro, in fila come tre sorelle che non si muovono mai dal davanzale. Una tremava più delle altre, con ostinazione.

Non si coricò subito. Si sedette sul bordo del letto e lasciò che le orecchie si aprissero. Dal piano di sotto, i genitori parlavano ancora. Le voci salivano filtrate, come se venissero da un pozzo.

La madre diceva, con voce bassa: «Domani non voglio confusione. Ci sarà gente che non conosciamo, e con loro vengono storie che non ci appartengono.»

Il padre rispose con il tono di chi pesa le zolle: «La confusione è il prezzo del pane. Senza, i campi non bastano.»

«Lo so» sospirò la madre, e in quel sospirò c’era più fatica che timore.

Poi cominciarono a ricordare le fiere passate. Era il loro modo di prepararsi: non con liste, ma con memorie.

«Ti ricordi,» disse la madre, «quel mercante con le piume sulla testa? Quello che vendeva botti piene d’acqua colorata e le chiamava vino?»

Il padre rise piano. «Diceva: “Un vino che canta come un gallo.” E la gente ci credeva. La notte dopo, i vicoli puzzavano di stomaci vuoti. Quell’uomo sparì al terzo giorno di fiera. Le piume le trovammo nella merda dei muli.»

Risero entrambi, ma era una risata breve, non indulgente.

«E il nano dei dolci,» continuò lei, «quell’anno che la scimmia gli scappò e salì sulla torre? Ci volle il prete con la campana per farla scendere.»

«La campana che suonava a mezzogiorno. La scimmia credeva fosse pranzo.»

I ricordi continuarono, mescolandosi a fatti strani: il giocoliere che si ferì da solo col coltello; il venditore di pelli che spacciava cuoio di pecora per pelle di drago; il menestrello che conosceva solo tre canzoni e le cambiava di posto per farle sembrare nuove.

Ogni anno aveva portato con sé una follia. E ogni follia era entrata nella casa, raccontata attorno a quel tavolo.

Poi la voce della madre si fece più grave. «Ma il ragazzo non è più piccolo. Ha gli occhi lunghi, ormai. E la gente li vede, occhi così.»

«Meglio che li veda con me accanto» disse il padre. «Domani imparerà a stare dentro la folla senza perdersi.»

Le parole salirono dritte nella stanza di Darin, che arrossì al buio.

Giù, la madre e il padre parlarono delle cose pratiche. La lista era lunga come una preghiera.

«Tre monete di rame. Due da spendere, una da tenere.»

«Il sacco piccolo, quello che non suda.»

«Il coltello, il sopracciglio di ferro. Non più di quello.»

«La tazza di latta. L’acqua si paga cara.»

«Il grembiule scuro, quello che non mostra le macchie.»

«Una mela. Che duri fino a mezzogiorno.»

Ogni oggetto veniva pronunciato come un membro della famiglia. Ogni parola aveva un odore, un peso, una memoria.

Darin si coricò lentamente. Il pagliericcio si piegò come un amico che gli fa spazio. Il lenzuolo ruvido graffiava, ma era un graffio familiare. Chiuse gli occhi, e le voci di sotto gli scivolarono dentro come un canto.

La mente, però, non si chiudeva. La piazza del mercato gli si apriva già davanti. Vedeva i pali piantarsi nella notte, le corde tese, le tende che sbocciavano come funghi bianchi e colorati. Vedeva i mercanti arrivare con i carri, i muli carichi, le donne che scaricavano sacchi, i bambini che correvano attorno gridando. Vedeva la piazza gonfiarsi come un ventre.

Gli odori si mescolavano: il ferro battuto, il pane fresco, la carne, il cuoio, la pece, la cera. E sopra tutto, il brusio. Un brusio che cresceva e cresceva, fino a diventare un mare.

Nel dormiveglia, i ricordi e i sogni si confusero. Vide Maira dietro i veli, con la spilla verde che brillava come una stella. Vide il cane monaco che camminava nella ruota. Vide il mercante con le piume che rideva. Vide la ragazza bionda che lo guardava e poi spariva nella folla. Vide la statua mutilata al centro della piazza, che sollevava il braccio monco come per indicare qualcosa dietro di lui.

Si svegliò di colpo, sudato. La finestra mostrava ancora le tre stelle. Una tremava più forte. Un rumore arrivò dal vicolo: un colpo secco, come una catena tirata e lasciata. «Sciocchezze» si disse, e si rimise giù.

Ma il cuore non si calmò subito. Rimase a battere forte, mentre la mente gli diceva che domani sarebbe stato diverso. Domani la piazza avrebbe aperto la bocca. Domani tutto il feudo sarebbe stato un teatro, e lui in mezzo.

Alla fine, il sonno lo prese come un ladro gentile. Il respiro si fece regolare, la mano gli cadde sul petto, proprio dove quella mattina aveva tenuto la spilla. L’assenza del peso gli sembrò ancora presente, come un vuoto che riempie.

La casa lo vegliò. Le pareti strinsero meglio il mantello, la brace pensò ancora un poco, e il vento rimase fuori, buono.