Capitolo V — La Rocca

La Rocca

Il castello non stava sopra il feudo: gli stava dentro, come una pietra di fiele nel ventre di un animale grasso. E tuttavia, quando Darin prese il sentiero che saliva dalle porte verso la rocca, ebbe la sensazione netta d’entrare in un’altra stagione, in un clima proprio, in un odore che non apparteneva più ai vicoli né alla piazza. L’aria si faceva più fredda man mano che saliva, non per vento, ma per autorità. Era il freddo delle stanze vaste, dei corridoi che non hanno memoria dei passi, delle pietre che conoscono soltanto la voce del comando.

La scalinata esterna, scolpita nella roccia, s’inerpicava come una lingua spaccata. Ogni gradino era stato consumato da generazioni d’andate e venute: soldati, servi, messaggeri, cuochi, dame, scribi, saltimbanchi ammessi a corte per far ridere chi non rideva mai. Il tallone del tempo aveva scavato al centro di ciascun gradino una conca lucida, dove la pioggia si tratteneva dopo i temporali, e che ora, asciutta, rifletteva a brandelli il cielo. Darin mise il piede in quelle conche antiche con prudenza, come se la roccia potesse chiedere il pedaggio d’un ricordo.

Sulla sinistra, un muro a picco scendeva fino ai tetti del feudo: paglie annerite, travi storte, cortili stretti che da lì apparivano come buchi neri. Sulla destra, la rocca saliva in piani e terrazze, con torri che si addossavano l’una all’altra in un abbraccio di pietra malato. Qua e là, tra la muraglia e l’aria, si aprivano feritoie sottili come tagli freschi, e da alcune usciva un filo di fumo, da altre un odore di zuppa o di cuoio, da altre ancora un alito secco, privo di odori, come il respiro di chi finga di dormire.

Il portone della rocca esterna — il primo stomaco del castello — era una bocca ferrata. Le borchie, grandi come pugni, s’infilavano nel legno con un rigore da chiodi di croce. Sullo stipite sinistro, Darin notò un graffio inciso a mano: una figura rozza di cervo, con le corna spropositate. Nessuno badava a quel cervo fanciullesco, ma a lui parve il disegno di un bambino punito. Gettò un’occhiata alle guardie: come sempre, erano uomini di ferro stanco, con occhi appannati; uno, particolarmente pallido, portava al cinturone due cipolle come medaglie.

Entrò nell’atrio della rocca esterna. L’aria gli stette addosso. Non puzzava di sudore né di vino, come giù in piazza; sapeva di pietra viva e di grasso. Il soffitto, sostenuto da travi nere, era così alto che la voce vi saliva come una preghiera pigra e tornava giù in ritardo, addolcita. Alle pareti, trofei di caccia pendevano come innocenze impagliate: mandrie di occhi vuoti che guardavano in eterno. Un cervo grande come una colpa teneva la testa girata in un modo che pareva ironico; un cinghiale mostrava zanne gialle e un filo di polvere si era depositato sul suo grugno, disegnandogli baffi di vecchio.

L’atrio si apriva su un cortile interno, il cortile delle cose che lavorano. Qui il castello aveva la sua piazza segreta. Non c’erano mercanti, ma uomini e donne che non vendevano: facevano. Il ritmo non era quello del prezzo, ma della necessità. Un mastro di stalle, con il naso come una noce rotta, passava in rassegna i cavalli: soffi, crini, zoccoli ferrati, fiati che fumavano sebbene non fosse freddo. Uno stalliere grasso, col berretto a punta, parlava all’orecchio d’un ronzino con una gravità da confessore: «Tu sei un mulo in disgrazia travestito da cavallo», gli disse; e il ronzino s’irrigidì come se avesse capito.

Sotto un porticato, una fila di barili appena cerchiati si pavoneggiava come un drappello di soldati: legno chiaro, cerchi scuri, odore di resina e ferro. Il bottaio della rocca, più asciutto e meno comico del collega in piazza, dava tre colpi per ogni barile, non per disciplinarlo, ma per ascoltarlo. Ogni barile ha un cuore, pensò Darin, e il bottaio stava studiando i battiti.

Dall’arco a destra veniva un rumore di cucine: lame su taglieri, mestoli in padelle, voci di donne che si sovrapponevano come le squame di un pesce. Darin si avvicinò per istinto, come s’accosta un naso a un odore che si riconosce. La pista grassa dell’aria lo prese per mano: cipolle tagliate in lacrime, gole di gallina appese, un fegato rosso che la cuoca sollevò come un cuor di bambino. La cucina grande era una caverna piena di fuochi. Al centro, uno spiedo girava da solo, mosso da una corda e da una ruota che un cane zoppo metteva in moto con santa rassegnazione. Il cane camminava nella ruota con la dignità d’un monaco: non si lamentava, non guardava nessuno, e la sua fatica era una preghiera.

Le cuoche avevano braccia forti e dita veloci. Una, con un neo grande come una moneta sulla guancia, cominciò ad assottigliare la pasta come se stesse convincendo una nipote testarda; un’altra, con i capelli attorcigliati in una crocchia che sembrava la chiocciola d’un guscio, infilava chiodi di garofano in una cipolla come spilli in un cuscino da sarta; una terza, lunga come una scala, scostava con il gomito le mosche dal brodo senza interrompere il sermone contro un garzone in ritardo. «Il brodo ha orecchi» disse, e lo disse proprio al brodo. Un cuoco col metro della superbia stretto al petto puntellava le erbe con miscugli da alchimista. «Noce moscata quanto un sospiro»; «salvia quanto una bestemmia che non esce»; «pepe quanto un segreto sussurrato male». Ogni misura era una parabola.

Una lavanda di rame stava sull’orlo del focolare, piena di panni imbevuti d’un odore di selvaggina che aveva oltrepassato il confine tra il buono e il molto. Una serva giovane, con le mani spelate, pestava sale grosso in una scodella. Il pestello batteva come un’ora che si ripete. Quando vide passare Darin alla soglia, sollevò lo sguardo; ma non c’era curiosità nei suoi occhi: piuttosto la stanchezza di chi, anche guardando, resta ferma.

Andò oltre. Dal lato opposto del cortile, sotto un altro portico, si apriva la casa degli attrezzi del dovere: scaffali di lance, fascine di giavellotti, spade che pendevano come lingue d’un animale che s’è già saziato. Il maestro d’armi, un uomo con la mascella squadrata dalla coercizione, stava passando un dito sulle lame non per provarne l’affilatura, ma per ricordare alle lame che esistevano. «Se dormite, taglierete sogni» disse a una spada con un sussurro da prete brontolone. Più in là, due scudieri facevano finta di battersi, con colpi che erano carezze gonfie di boria. Il maestro li guardò con la pietà che si ha per i pomodori verdi. «Non giocate ai morti senza aver conosciuto i vivi» borbottò, e li allontanò con uno sguardo che spostava cose.

L’ala sinistra del cortile ospitava il magazzino dei cereali. Una porta socchiusa lasciò uscire un’ondata di polvere d’oro: profumo di granai pieni, sussurro di topi felici. Un vecchio custode, con la barba color crusca e la schiena a cavatappi, stava misurando il grano con un mestolo largo quanto un cappello. Ogni misura era accompagnata da un mugolio di approvazione o da una smorfia di sospetto. «Il grano cresce meglio se conosce il dubbio» disse a nessuno, e riprese a contare con le labbra.

Sopra il cortile correvano ballatoi di legno scuro, con balaustre smangiate da secoli di gomiti. Lì passavano servi silenziosi con ceste coperte, donnette con fascine di lenzuola umide, ragazze che ridevano a metà frase e poi si zittivano come punte da un ago invisibile. Da una porta si sentì un clavicordo mal accordato: qualcuno — un apprendista, una dama che non era dama — esercitava le dita sullo strumento con la tenacia dei maldestri. Tre note giuste, una sbagliata, e ogni sbaglio era una pietra lanciata in un lago che non rifletteva.

Darin attraversò il cortile, seguendo la linea che univa fuochi e ferri, cereali e cani monaci. Nell’angolo, un pozzo quadrato sprofondava in un buio che aveva fatto amicizia con la pietra. La carrucola gemeva con un suono già sentito in piazza, ma qui il gemito pareva più colto. Un servo rosso di faccia calò il secchio e lo tirò su a scatti, come se pescasse pesci ostinati. L’acqua, quando emerse, aveva un riflesso d’olio e di cielo, e odorava d’antico.

Serpeggiando tra archi e rientranze, Darin imboccò un corridoio che portava verso l’interno della rocca, dove il castello diventava voce bassa. Il pavimento, irregolare, era stato levigato dal passaggio di molte vite. Le pareti grondavano umidità in alcune zone, in altre si presentavano asciutte come vecchie che hanno pianto tutto. Fiaccole appese a ferri curvi bruciavano con fiamme arancioni, e il loro fumo s’attorcigliava in serpenti che andavano in cerca di una fessura nel soffitto.

Il corridoio si aprì in una galleria piena di arazzi. Non raccontavano battaglie vittoriose, ma stagioni. Una primavera con fiori più grandi del vero, estati col grano come capelli, autunni rossi fino alla malattia, inverni bianchi da accecare un cieco. In un angolo, un albero stava perdendo le foglie da trecent’anni senza avere finito. Le trame erano logore, i colori smorti, e tuttavia il filo conservava una ostinazione che parlava di mani e di occhi che li avevano guardati, di bocche che li avevano commentati come si commenta una gravidanza.

Nel mezzo della galleria, un tavolo lungo, coperto di libri, pergamene, calamai. Era la stazione degli scribi, e gli scribi — tre uomini e una donna, tutti con la gobba della pazienza — si muovevano come ragni su reti di parole. Uno copiava con una lingua di fuori, un altro soffiava sull’inchiostro come se volesse scaldarlo, il terzo levava ogni tanto gli occhi al soffitto, come pregasse la trave di ricordargli la data. La donna, con un naso molto onesto e dita nere, punteggiava le frasi con una severità che faceva tremare i punti. Una mosca cadde in un calamaio: lo scriba che lo usava la tirò fuori con un colpo d’unghia e, senza cambiare espressione, riprese a scrivere. La mosca, ubriaca di nero, volò via in diagonale, lasciando su una pergamena due tracce che sembrarono apostrofi.

Un ragazzo di corte passò di corsa con un fascio di inviti. Aveva la fretta dei messaggeri e la leggerezza di chi non sa ancora che la fretta logora i ginocchi. Sfiorò Darin senza vederlo, lasciando nell’aria un odore di cera e di sudore giovane. Darin guardò le pergamene: i sigilli di ceralacca avevano colori diversi, come caramelle di potere.

Oltre la galleria si entrava in un antico androne con scale che salivano a ventaglio. Sul primo pianerottolo, due armature vuote stavano come sposi esausti. I loro elmi lucidi a metà riflettevano il fuoco delle torce in occhi cattivi. Il magrone che passava con una spazzola in mano accarezzò una coscia di ferro come si carezza un cavallo; poi sputò sulla spazzola e proseguì.

Darin prese la rampa di sinistra. Sapeva — perché gli era stato detto una volta, in una sera di vino e omertà, da un groomsman che non ricordava più — che di là si arrivava alla sala grande. Ma prima, il corridoio lo portò a passare davanti a una loggia che guardava nel cortile superiore, il cortile del silenzio. Lì non c’erano fuochi né barili, né cavalli né cereali: solo pietra e figure che parlavano piano. Due dame di mezza età camminavano su e giù con passi misurati: vestiti scuri, cinture lucide, capelli raccolti con mollette che parevano insetti. Ogni tanto si chinavano per dire qualcosa all’orecchio l’una dell’altra; e ogni sussurro — Darin ne era certo — valeva dieci ordini gridati sopra i merli.

Sotto un’arcata, un prete con la barbetta come un pennello d’asino sfogliava un libro spesso e corto, pieno di parole. Aveva la voce nasale, e quando parlava somigliava a un corvo educato. Darin ne colse tre sillabe: «pro–vi–den–za». Gli parvero quattro pietre tonde, da rigirare in mano in tempi di fame.

Prima di riprendere la scala, Darin udì un suono che gli attraversò il petto: un colpo di tessuto. Voltandosi, vide, al fondo della loggia, un stendardo che pendeva in una nicchia alta. Il drappo scuro recava un segno cucito: non un animale, non una croce, non una corona. Era una figura geometrica: un cerchio interrotto da una linea obliqua, come una luna mal tagliata. Non era bello, non era brutto: era altrimenti. Le cuciture, consunte, si erano allentate; pure, nel punto in cui l’obliqua tagliava il cerchio, il filo sembrava fresco, come se fosse stato rifatto. Darin rimase un poco. L’aria lì sapeva di ruggine e cera, e gli parve per un attimo di udire dietro il drappo un respiro. «Sciocchezze» si disse. Ma il segno gli restò appeso nell’occhio come una farfalla notturna.

Salì. La sala grande non si mostrò subito: si fece sentire prima di lasciarsi vedere. Prima arrivò il freddo, più nobile, quello che appartiene alle pietre che hanno ascoltato discorsi lunghi; poi un odore di lana e di muffa onorata, infine il mormorio di cose pesanti — panche, tavole, armi appese — che hanno imparato a dire lentamente la parola «obbedienza».

Quando entrò, la sala lo inghiottì. Era lunga come un inverno cattivo, alta come un silenzio. Le travi del soffitto, grosso legno scuro, sostenevano lampadari di ferro con candele come dita fioche. Alle pareti, tessuti più gravi degli arazzi di prima, con scene di caccia e banchetti in cui nessuno sorrideva. Una pedana lontana, con una sedia alta e due più basse ai lati, stava come uno scoglio. Sulla sedia alta c’era nessuno. Questo “nessuno” era una presenza più massiccia di qualunque corpo.

Cinque servi stavano allineati contro la parete; tre armigeri vicino ad una porta laterale, con le lance come canne d’organo mute. In fondo, vicino ad una finestra stretta, una figura femminile teneva in mano un canovaccio e guardava fuori, verso il piccolo spicchio di feudo che da lì si vedeva. Darin si mosse senza rumore, quasi con vergogna. La figura femminile si voltò appena — capelli scuri stretti, profilo pulito — e tornò al suo sguardo. Non la conosceva. Ma in quella postura c’era la disciplina di chi serve un ordine che non discute.

Accanto alla pedana, un tavolo recava rotoli di pergamena e pesi di pietra. Un uomo magro, con naso diritto e labbra che sembravano tenute insieme da un accordo, stava sciogliendo un sigillo. Il ciambellano, pensò Darin, pur senza averlo mai visto. Il ciambellano non alzò gli occhi. «Troppo olio nella cera» disse piano al suo assistente, che annuì come si annuisce a un’eresia utile. Poco lontano, un coppiere lucidava un boccale con un panno così vecchio da sembrare una nuvola sfilacciata: ogni tanto sollevava il boccale contro la luce e scuoteva la testa come se dentro ci avesse visto una stagione storta.

Darin avanzò di tre passi e si fermò, perché la sala grande non è un luogo da attraversare come un cortile: è un mare. Il rumore che vi si sente non è dei passi, ma dei pensieri degli arredi. Una panca scricchiolò senza che nessuno ci si fosse seduto; un candelabro lasciò cadere una goccia di cera che si fermò in un punto esatto del tavolo, come se quel punto aspettasse la goccia da anni.

Un armigero, vedendo il ragazzo fermo, accennò con la lancia al lato della sala, dove i servi stanno quando non hanno un compito e non devono sembrare inutili. Darin, con una inclinazione della testa che non era timidezza ma grammatica, obbedì. Si appoggiò al muro, avvertendo il freddo della pietra passare attraverso la tunica come una cura maldestra. Da lì, la sedia alta sembrava più lontana e insieme più presente, come le cose che non sono tue ma ti convocano.

Poi accadde una minuzia che spostò l’aria: il ciambellano si schiarì la gola e il coppiere smise di lucidare. Gli armigeri si raddrizzarono, la donna al canovaccio abbassò gli occhi, i servi allinearono le spalle. Non entrò nessuno. Ma il rumore di una porta laterale che si apriva — senza èchi, come se fosse rivestita di panno — scrisse nell’aria una riga. Darin non vide chi entrò; vide solo il candelabro sulla pedana tremare nella fiamma come se un respiro gli passasse vicino. L’istante dopo, una voce non forte — ma fatta della materia con cui si fanno gli ordini — disse qualcosa che Darin non sentì. Eppure la capì: era una frase che stava tra il sì e il no come una lama posata di piatto.

Avrebbe voluto restare, ma la grammatica delle stanze lo spinse via. La sala grande non trattiene, semmai espira. Tornò nel corridoio, dove la vita riprendeva il suo rumore viscoso, e scese due gradini più di quanti avesse salito, ritrovandosi sotto una volta a botte che odorava di cera, timo e scudo. Là un usciere senza età — naso viola, occhi di vetro vivo — gli indicò con un gesto appena la scala stretta che portava alle cucine alte e ai panifici. Darin annuì e, per lasciare che il castello cambiasse respiro senza offenderlo, prese quella direzione.

La scala era una spirale con gradini smangiati dal sale della pasta e dal sudore mattiniero. Ogni piolo raccontava l’andata e il ritorno di pani mai visti: pagnotte sottili, forme rotonde come contraddizioni, filoni lunghi come penitenze. In cima, una porta inciampò nel suo cardine e si aprì su una stanza bianca: il panificio. Farina nell’aria come neve maleducata, forni con bocche rosse, pale che entravano e uscivano come lingue. Il fornaio capo aveva un grembiule rigido di farina tanto antica da sembrare gesso. Parlava poco e a bassa voce, con l’autorità di chi fa nascere cose che si mangiano. Due ragazze giravano la pasta con pugni pieni: a ogni spinta un sospiro. «La mollica deve ricordarsi d’essere aria» disse il fornaio a una pagnotta ancora cruda; «e la crosta deve mentire» aggiunse, e la sua bugia era quella seducente dei pani ben cotti.

Da una finestra alta come un mirino, Darin scorse un’altra porzione del feudo: tetti che da lì apparivano più ordinati, vicoli ridotti a vene, piazze a pori. E, oltre, la campagna: una tovaglia stesa male. Si accorse — con un piccolo brivido che non aveva nulla a che fare con il vento — che da lì il castello vedeva tutto. Non bene, ma a sufficienza. Quanto basta a decidere.

Uscì dal panificio e seguì un corridoio asciutto: il pavimento sapeva di segatura e passi brevi. Si fermò davanti ad un uscio con chiavistello: dall’interno veniva un odorino di inchiostro, colla e cera. Spalancò: era una stanza di cassetti. Cassetti ovunque: cassetti bassi, cassetti alti, cassetti larghi. Un bibliotecario senza capelli, con un collo di pelle pieghettata, stava riponendo piccoli rotoli in scomparti numerati. «Qui si conservano le misure» disse, senza guardarlo. «Le misure del pane, del sale, delle parole. Ogni cosa ha una misura. Anche ciò che non si pesa.» Prese un rotolo, lo odorò, lo rimise. «Questo sa di estate» mormorò, soddisfatto, come se avesse riconosciuto il profumo d’un figlio.

La seconda porta sulla sinistra conduceva a una camera scura dove tre telai battevano piano: mani sottili tessevano nastri e galloni per abiti che Darin non avrebbe mai indossato. Al muro, su un chiodo, era appeso un mezzo guanto: cucito male, come un esercizio. Improvvisamente, nel rumore dei telai, Darin sentì — o gli parve di sentire — il nome di sua sorella come una spola che gli fendeva il cuore. Non perché l’avesse vista, non perché fosse lì; ma perché il colore di un nastro — un ocra che non era né ricco né povero — gli ricordò il modo in cui lei rideva trattenendo il fiato. Lasciò la stanza in fretta, come si lascia un indizio che ancora non vuole essere capito.

Il corridoio lo portò a un androne in semibuio, dove l’odore cambiò ancora: fresco, quasi di pietra bagnata. Due sottoservi spingevano una porticina e ne uscì una corrente d’aria che aveva attraversato cisterne e cantine. Darin si infilò tra loro con un cenno e si trovò davanti a tre archi consecutivi: a sinistra si scendeva, a destra si saliva, in mezzo c’era un rettilineo che prometteva il chiostro del capitolo, dove i consigli si radunavano in giorni che puzzavano di pioggia. Scelse il rettilineo: il castello, quel giorno, per lui non era né alto né basso: era dritto.

La galleria del capitolo era più nuda di tutte. Niente arazzi, niente libri, niente armi. Solo pietra e sedili lunghi, con incavi scavati da posteriori che avevano discusso per generazioni. Il chiostro era un quadrato di cielo con al centro un albero magro, troppo serio per essere giardino. Sulle quattro pareti, sotto le arcate, stavano tre uomini in silenzio e una donna. Non parlavano; e proprio per questo la galleria sembrava piena di voci. Uno si schiarì appena la gola e la pietra rispose in quattro direzioni. La donna aveva in mano un cordoncino e lo tirava tra due dita con una pazienza che si portava dietro i giorni.

In un angolo del chiostro, coperto da un panno, Darin notò un oggetto lungo e angelicamente inutile: una astina con all’estremità una sfera di rame opaco. Nessuno lo guardava. Eppure emanava un odore freddo, come di pioggia prima di piovere. Gli venne una specie di sorriso imbarazzato — a lui, che sorrideva poco — e distolse lo sguardo.

Fu in quel momento che una campana — non grande, non piccola — suonò da qualche parte dall’alto, con un colpo solo, fermo come un indice puntato. Non chiamava: segnava. Marcava un prima e un dopo, come quando si fa un nodo alla corda per ricordarsi di non dimenticare. Darin arrestò un passo e restò.

Poi il castello fece quello che fa quando ha finito di mostrarsi: respirò in dentro e in fuori, come un uomo che si prepara a parlare.

La campana aveva annodato il tempo, e dopo quel nodo ogni suono parve più educato. Darin imboccò un corridoio dove l’aria aveva odore di colla, di lana, di sapone fiacco. Camminava con la cautela dei non invitati: il passo che non lascia impronte e l’occhio che ripiega i bordi di ciò che vede per non sgualcirlo. In una nicchia una lampada ardeva con uno stoppino pigro; la fiamma sembrava ascoltare.

Voltò di nuovo, e un’ombra gli si staccò dal muro come un mozzicone di notte. «E tu?» fece una voce di ferro. La punta d’una lancia gli tagliò l’aria davanti al petto: non lo toccò, ma gli restituì il suo stesso respiro.

La guardia aveva una cicatrice che gli faceva il giro del sopracciglio e gli chiudeva l’occhio in una mezza luna cattiva. Nel metallo dell’elmo si specchiò, deformata, la guancia di Darin. «Questi non sono corridoi per i piedi che vengono dal basso» disse l’uomo, senza alzare molto la voce, come se il castello avesse orecchie gelose.

«Mi sono—» Darin cercò la parola che non suonasse colpevole «—smarrito. Devo consegnare una cosa alla guardaroba alta. Mia sorella è dama di compagnia, oggi ha servizio. Ha dimenticato…» E la mano, prudente come un servo che solleva una tenda, toccò il nodo di panno sotto la tunica. «Una spilla del feudo. Quella di servizio.»

La guardia inclinò il capo: un’increspatura di scetticismo, la ruggine di una domanda. «Fammi vedere il segno, non la cosa.»

«Quale segno?»

«Il segno delle mani» disse l’uomo. «Chi entra qui per consegnare non mostra i palmi come mendicante; tiene il pollice sotto la prima falange, così non graffia la seta.» Indicò con la lancia, come un maestro con la bacchetta. Darin rifletté per un battito, poi fece come gli era stato detto: le dita si piegarono sulla memoria dei panni di casa, e i polpastrelli si addolcirono. La guardia annuì. «Almeno non la scortichi» borbottò. «Adesso ascolta: prosegui fino alla grata che odora di miele; conta undici pietre e svolta a destra. Troverai una scala che sale larga e breve. Non guardare nelle stanze che si affacciano: vedere non aumenta il piacere. Bussa due volte alla porta con la cerniera fischiante. Lì stanno le donne di cucitura e le dame prima della discesa. Se ti mutano la via, di’ che ti manda Aldebrand.»

«Aldebrand?»

«Il mio nome quando sono di buon umore.» L’uomo abbassò la lancia, e nel gesto c’era un’inaspettata provvidenza. «Muoviti, prima che il nodo della campana si stringa.»

Darin lo ringraziò come si ringrazia un ponte. Le undici pietre lo portarono ad una grata la cui ruggine sapeva davvero di miele sciolto. Le dita sfiorarono il ferro, ed ebbe la sensazione — puerile e vera — di uscire da una bocca e rientrare in un’altra. La scala larga e breve gli diede il dono di salire senza stancarlo: quattro rampe, ciascuna con il respiro giusto per un pensiero. Non guardò nelle stanze: su una tenda vide scorrere il riflesso di un bracciale, su un’altra un’ombra con una pettinatura che pareva un nido ragionato, ma tirò dritto.

La cerniera fischiò come un uccello chiuso in una scatola. Due colpetti con le nocche — il suono gli fece la barba — e la porta si aprì. L’aria di là era bianca: non di calce, di velo. Appesi, stesi, posati su spalle di legno — veli che facevano luce. Il guardaroba alto era un cielo d’armadio. Tavoli bassi ospitavano spille, nastri, copribusti, forbici dal profilo predatorio; panche lunghe attendevano corpi con la pazienza invernale delle travi; due specchi ovali, con la superficie imperfetta, restituivano alle stanze vicine un gioco di acque.

Le dame di cucitura muovevano gli spilli come libellule. Una — dita sottili, bocca con una cicatrice antica — stava fermando un bordo di velluto e intanto sussurrava a una ragazza: «La piega non è una colpa, è un consiglio». Un’altra passava la mano sulla seta lisciandone le ire. Lì vicino, una dama giovane in servizio provava una gonna “da mattina”: la tenuta della Signora per il girare tra logge e gallerie. Ogni gesto era devoto e pratico insieme: la liturgia del vestire.

«C’è Maira?» chiese Darin, e il nome della sorella gli uscì con un pudore che non aveva quando la chiamava in cucina.

«È dietro il paravento dei giunchi» rispose la donna con la cicatrice alla bocca, senza alzare gli occhi. Il paravento — una parete leggera con disegni d’erbe intrecciate — velava un angolo dove i mormorii diventavano più piccoli.

Maira comparve come si esce da una preghiera: gli occhi lucidi ma non bagnati, capelli fermati con due forcine d’osso, il nastro di servizio già annodato al polso — quello che profumava di amido e mansuetudine. «Darin?» fece piano, ma nella sillaba c’era una stanza di cucina, un secchio, un pettine, le risa spezzate dei giorni in cui tutto era chiaro. Il ragazzo sciolse il nodo di panno; la spilla — foglia brunita, piccolo vetro verde nel cuore — brillò come verità diminuita. Maira la prese con ditale e polpastrello: «Sei arrivato giusto, oggi mi spettano i capelli della Signora. Senza spilla non assomiglio al mio mestiere.»

Darin guardò attorno come si guarda il bordo d’un pozzo: vedeva cose che non doveva desiderare di capire. La Signora — non lì, non ancora — era già in ogni oggetto: in un nastro piegato, in un guanto lungo, in una spazzola di setole chiare. «Non posso fermarmi» sussurrò Maira, ma i suoi occhi gli passarono sul viso due volte, come se volessero cucire qualcosa che la distanza o il tempo avevano scucito. «La mamma?»

«Taglia piano la legna, oggi» rispose Darin, e si accorse che quella frase era una carezza.

«Dille che scendo quando posso. Se la Signora ha umore di prugno, avremo molto da non dire.»

Un colpo secco sul legno fece tremare gli spilli: era un’assistente che batteva il dorso del pettine sul tavolo, segnale convenuto. «In loggia» disse. Le dame si mossero come carta ben piegata. Maira mise la spilla al collo del proprio grembiule di servizio, la foglia di ferro si posò proprio alla fossetta dove il respiro si divide. Per un attimo la vetrina verde colse la luce e la restituì non come lampo, ma come promessa. «Vai» disse in fretta, «non farti vedere quando non servi». E fu già via, sciolta nel corteo delle stoffe.

Darin arretrò con quella docilità che gli veniva dalla fucina: quando il martello scende, tu togli le dita. Nel corridoio il suo passo si fece di nuovo minuto. Non aveva più un incarico, e per questo la rocca lo guardò meno ma più forte: come fanno i gatti quando hai posato il boccone.

Un usciere dal naso di prugna lo incrociò e gli gettò addosso una misura: «Esci dai corridoi vivi; prendi quelli di servizio. Il castello si chiude quando scende la Signora». La parola “chiude” gli passò sulla pelle come una lama affilata ma gentile. Obbedì senza domande. Le volte dei corridoi di servizio erano più basse, più oneste; portavano odori di acqua, cenere, cera, pane, timo. Il castello mostrava il suo scheletro: travi sinceramente marce, giunti di ferro con la febbre, scale dove i chiodi avevano memoria.

Scese una rampa sul cui muro qualcuno aveva inciso con un chiodo un fiore stanco; salì un’altra dove il gradino di mezzo si lamentò sotto il suo peso con un verso che nella fucina Ralf avrebbe chiamato «legno che ricorda». Passò davanti a una porta da cui usciva una voce che scandiva nomi; si fermò un istante: «Lista del pane» disse la voce, «panche di sala grande, candele della loggia, vino per la mensa bassa, corde per la ruota del cane». Un mondo intero nominato. Si sentì, per un attimo, dentro le parole e non fuori.

Quando riguadagnò il corridoio lungo che portava verso il cortile delle cose che lavorano, il castello gli parve più grande di un momento prima, e insieme più suo. Non perché lo possedesse, ma perché ora lo conosceva. Era il sapere dei sentieri, non delle mappe: la memoria dei gomiti sulle balaustre, dei nodi di panno, del ronzio delle stanze che hanno un compito.

Alla svolta verso l’atrio, si ritrovò Aldebrand di fronte — la guardia dall’occhio a mezzaluna. Il ferro della lancia posava a terra, la mano giocava svogliata con la cinghia. «Allora?» disse, non senza un rimprovero educato. «Hai fatto il giro o un giro ti ha fatto?»

«L’ho trovata» rispose Darin, «e le ho dato la spilla.»

«Bene. Le cose piccole salvano le grandi dai tonfi. Adesso scendi. Fra poco un vento di seta passerà per la loggia. Gli uomini con occhi come i tuoi inciampano dove la seta decide di stare.»

Darin annuì. Era strano: gli parve di voler bene a quell’uomo duro come si vuole bene a un gradino che non tradisce. L’atrio lo ricevette con l’alito di prima: la selvaggina impagliata lo guardò senza interesse, il cervo ironico tenne il capo nel suo angolo di sarcasmo. Nel cortile, il cane monaco camminava ancor sempre nella sua ruota, e il suo passo diceva la litania che tiene vivi i fuochi.

Fece per infilare la scalinata che scendeva verso le mura quando un filo di luce lo trattenne: dalla loggia superiore si mosse un taglio pallido, come quando una nuvola si scopre. Il taglio diventò colore: bianco e prugna con un restringersi di oro. Non osò voltare il volto intero; lasciò che fosse la coda dell’occhio a rubare. Figure presero posto come tessere in una nicchia: due dame, un ciambellano asciutto, la Signora — o il suo segno — che attraversava la loggia come una frase dice “tuttavia”. Le voci non scesero, ma il peso sì: un peso che spostava l’aria, che faceva più denso il fumo delle cucine e più sveglia la polvere sulle mensole.

Era tempo di uscire. Fuori, il feudo lo attendeva con la sua giornata che scivolava verso il tardo; e tuttavia Darin sentì che qualcosa del castello gli si era attaccato addosso come una polvere che non sporca ma segna. Attraversò il cortile, valicò l’atrio, sfiorò il graffito rozzo del cervo con le corna esagerate, scese i gradini con la prudenza con cui si discende in un’idea. Ogni conca nel mezzo dei gradini gli restituì un pezzo di cielo capovolto.

Sulle mura, i corvi avevano cambiato registro: non più il gracchiare di quando rivendicano, ma quello di quando contano. Le porte sbuffavano entrate ed uscite come mantici. Il feudo, ai piedi della rocca, era un catino di luce sporca. Nella piazza il banditore stava finendo la voce, lo stagnino aveva messo a riposare i ferri, il nano dei dolci batteva piano il bastoncino per ricordare a se stesso che ogni regno è temporaneo.

Darin prese la via dei vicoli bassi. Scese per le scale dove il muschio tiene la mano, passò accanto alla taverna con la soglia bagnata, ascoltò da lontano la risata di un uomo che rideva solo per ricominciare a piangere. Un lenzuolo, come un pensiero pentito, rientrava da una finestra.

All’imboccatura che porta alla piazza, si fermò. Gli arrivò addosso la sera — non quella con le stelle, la sera del lavoro: odore di cenere rimossa, di cavoli con la pazienza, di piedi che finalmente si concedono il rumore della casa. Nel cielo, il taglio tra le torri teneva ancora un azzurro apatico. Il feudo, che all’alba aveva respirato come un animale che si sveglia, ora sbadigliava. E nello sbadiglio c’era tutto: pane, brodo, ruggine, risate sbilenche, pianti di bambini che imparano la grammatica del sonno, segreti che si attorcigliano alle gambe dei tavoli, cinture appese a chiodi innocenti.

Si toccò il petto dove poco prima la spilla aveva fatto un’ombra. Non c’era più il peso piccolo, ma ne restava il posto: un’assenza precisa. Sentì, nitida come una riga di lima sulla lama, la consistenza del giorno. La rocca — pietra di fiele nel ventre dell’animale grasso — aveva parlato a suo modo: non con parole, ma con conseguenze.

Dal fondo della piazza una voce — non il banditore, non uno scriba — chiamò tre volte un nome che non era il suo. Il suono, scivolando sul selciato, perse lettere, rimase un invito generico. Darin sorrise appena. Pensò a Maira che, dietro i veli, appuntava una foglia di ferro dove il respiro si divide. Pensò alla madre che posava la scopa e guardava la porta come se da lì dovesse passare il tempo stesso a chiedere acqua. Pensò al padre, duro come una zolla che aspetta la zappa. E pensò — per un istante corto e segreto — alla ragazza bionda del villaggio, quella con la pelle scurita dal sole, che forse in quel momento rideva di qualcosa che lui non sapeva, e proprio per questo gli mancava.

Il giorno si piegò su se stesso. Il feudo girò il volto nel cuscino. Le mura si strinsero. Un cane fece due giri su se stesso e trovò l’esatto posto dove dormire. Una candela, in una finestra, tremò come una nota tenuta troppo a lungo. Darin si mise in cammino verso casa, portando con sé il rumore stretto del castello, come si porta in tasca un oggetto che non si è rubato ma che non si può mostrare.

Sul punto dove la piazza s’insacca nei vicoli, una ombra — non larga, non alta — gli passò accanto con la discrezione dei presagi. Portava con sé un odore che non era del feudo: ferro lucido senza fumo e cera che non sapeva di chiesa. Si voltò. Non vide nessuno. Il corvo più vecchio fece un verso che gli piacque poco. Era un suono che prometteva notti strane.

Darin alzò il bavero e, senza fretta, attraversò il confine di casa che ogni sera si ricompone. Le tavole sotto il piede gli portarono i loro saluti consueti. Da una finestra, la madre gettò fuori un secchio d’acqua con un gesto che sapeva di benedizione; il padre rientrava con l’odore di terra che ha avuto una conversazione lunga. La porta fece il suo lamento di vecchia che protesta contro il mattino — ma adesso era sera, e la protesta aveva un sapore più dolce.

Il castello, alle sue spalle, tacque in un modo che non era silenzio: era ricognizione. E il feudo distese la coperta. Una luce — da qualche parte oltre le torri — s’indurì un attimo, poi scivolò via come un pesce nel fiume. La sera nel feudo non scendeva: slacciava. Un bottone dopo l’altro, le strade allentavano la giornata e lasciavano uscire ciò che avevano trattenuto. L’odore di ferro dei vicoli diventava odore di cenere smossa; il vociare della piazza si stirava in filamenti sottili; i corvi calavano il registro, come suonatori stanchi che ripongano gli strumenti ma canticchino ancora, a mezza voce, per affetto alla melodia.

Darin camminava con il cappuccio basso. Le case, che a mezzogiorno avevano guardato il sole con la prepotenza dei poveri, ora tenevano gli occhi semichiusi, come gatti sul focolare. Le finestre lasciavano sporgere un lume: una riga tremula, un quadrato incerto, una goccia gialla che, vista da lontano, sembrava un’ape che indugia su un fiore tardivo. I vicoli si facevano più stretti, ma meno ostili; il buio, in certi punti, era un tessuto morbido, in altri una pelle ruvida.

La piazza si svuotava con lentezza. Il banditore sedeva sul suo barile spento e si massaggiava il ginocchio, come se il ginocchio avesse annunci da emanare al mattino; lo stagnino aveva impilato le pentole in una torre sbilenca che pareva una preghiera; il nano dei dolci, con il bastoncino a mezz’aria, contava i resti come si contano i peccati: uno, due, due e mezzo, tre, e poi il debito col fornaio, e poi un biscotto rotto da scontare con un sorriso domattina. La statua mutilata, in controluce, perdeva la ferita e guadagnava un profilo più dignitoso: il braccio monco somigliava a un ramo potato a misura per l’inverno.

Sul lastricato, i passi facevano un rumore nuovo. Non il tocco indaffarato del giorno, né lo sgombero frettoloso della pioggia: un ritmo che stava tra la cautela e il sollievo. Un cane passò senza fretta, con il muso basso e la coda a punto interrogativo. Una coppia camminava vicina senza toccarsi: le mani erano una promessa più contabile del tatto. Una donna trascinava una cesta vuota come si trascina un pensiero che non si è avuto il tempo di finire. Un vecchio sedeva contro il muro, col cappello sugli occhi, e fingeva di dormire per ascoltare meglio.

Darin si fermò sotto la trave del corvo. L’uccello, appollaiato nel suo posto d’anziano, lo guardò inclinando il capo, come si guarda un bambino che ha messo le scarpe al contrario. «Questa città la conosci più di quanto vuoi» pareva dire, ma senza ironia. Il ragazzo abbassò lo sguardo: sulla pietra, la luce di una finestra aveva disegnato il riflesso di un telaio; in quell’acciaio d’acqua in cui l’immagine tremava, gli parve di vedere passare la sagoma di Maira — o una sorella qualunque di tutte le sorelle del mondo — con un pezzo di filo tra i denti. Sorrise di quella menzogna vera.

Dalle cucine di case che non erano le sue arrivarono i primi odori decisi: cavoli, cipolla che, dopo avere pianto, si metteva a ridere di sé, patate sobbollite come idee che non vogliono uscire, una spolverata di pepe che non era ricchezza ma desiderio di sembrare ricchi. Qualcuno arrostiva qualcosa a fuoco vivo; la carne schioccò come una mano che saluta e, subito dopo, come una mano che chiede perdono. Un bambino gridò «fame» con la fantasia, non con la bocca; un padre tossì il suo beneamato silenzio. Le porte sigillavano gli interni con un colpo di spalla, ma i comignoli, altruisti, tradivano chi dentro rideva, chi imprecava, chi si consolava con la minestra.

Darin prese il vicolo delle tinozze, quello che di giorno puzzava come un mulo e di notte come un mulo lavato. Dalle finestre basse arrivavano scrosci brevi: un paiolo sciacquato, una mano immersa nell’acqua tiepida, un piatto che perdeva la sua giornata. Le pareti, umide, restituivano lamenti buoni: erano i lamenti delle assi che avevano fatto il loro dovere e, prima di dormire, si ricordavano ad alta voce. Lì, tra quelle inflessioni di legno e goccia, Darin avvertì una calma che non sapeva d’avere. L’aveva lasciata sullo scalino della fucina, quando la ruggine aveva chiuso gli occhi.

L’oste della taverna piccola, quella col pavimento sempre umido, stava fuori a spazzare un tappeto di bucce, pane secco e due carte strappate. Con la scopa non faceva pulizia: cantava una canzone senza musica. «Gli uomini bevono» bofonchiava «per dare alle parole un colletto nuovo; poi se lo slacciano e tornano alla stessa camicia.» Vide Darin, alzò il mento: «Hai la faccia di chi ha visto su in alto il modo in cui il pane decide di farsi tagliare.» Il ragazzo fece un gesto vago che, in un altro posto, sarebbe stato un sorriso. L’oste batté la scopa contro la soglia. Dalla sala interna arrivò un coro di risate spiacevoli e un colpo sordo — un braccio sul tavolo, forse, o un pensiero caduto di schiena.

La guardia con gli occhi giovani passò due volte nello stesso verso: la prima scrutò, la seconda ricordò. Al terzo passaggio non venne; i turni, in quella parte del feudo, erano tracciati con il gesso della stanchezza. Gli usci dei magazzini tiravano un sospiro di legno, e il ferro che li stringeva sembrava, per una volta, meno crudele. In cima al vicolo, un uomo asciugava un coltello con una striscia di tela; la lama aveva visto il giorno e, per buona creanza, a sera si lasciava lavare. Il suo profilo contro il cielo sembrava un’accento su una vocale che non esiste.

Il cortiletto dei carbonai emanava fievole luce dalla brace che non voleva spegnersi. I volti scuri erano diventati macchie; i denti, piccoli falò. Il bambino del carbone — quello che aveva chiesto a Darin di giocare con la palla nera — dormiva seduto, con la testa sul sacco e le labbra aperte in una parentesi di sogno. Uno dei carbonai, senza rumore, gli tirò sulle spalle un sacco più leggero. Nel silenzio, quel gesto fu una campana senza metallo.

Darin, accostandosi al muro, guardò verso le mura. Di notte, le pietre sembravano meno imponenti e più affamate. Il muschio, invisibile, scriveva con dita umide; i merli, neri, non erano più denti ma occhi. Le sentinelle camminavano con una pazienza al contrario: come se, invece di consumare i gradini, fossero i gradini a consumare loro. Una di esse si fermò, sputò fuori dalla merlatura e guardò la saliva scendere come si guarda un’idea che non si saprà dove andrà a sbattere. I corvi, ai loro posti, non gracchiavano più: facevano quel rumore di stoffa ruvida che si fa quando ci si sistema il mantello prima di sedersi.

La porta a nord emetteva un lamento discreto: non si apriva né si chiudeva, ma provava la propria cerniera, come un vecchio che muove il ginocchio prima di alzarsi del letto. Davanti all’arco, un mendicante aveva acceso un lumino strozzato in una patata: la fiamma mordicchiava il buio con denti di ruggine. Accanto, una ragazza sistemava i capelli nel vetro di una finestra che non rifletteva quasi nulla, ma lei faceva finta di crederci: i gesti si specchiano anche quando lo specchio è cieco.

Darin si sedette sul gradino basso della casa del bottaio. Gli parve di appoggiare la schiena contro una bestia addomesticata. Le dita della mano andarono, senza volerlo, alla tasca dove prima il panno aveva custodito la spilla. Vuoto. Un vuoto buono, di cosa fatta. Chiuse la mano lo stesso, come si chiude su un’assenza quando la si vuole tenere calda. Pensò alla voce del soldato — Aldebrand — quando diceva “undici pietre” come se le parole fossero davvero pietre.

Una porta si aprì a metà scivolo più in su: una donna — capelli raccolti, braccia nude, una macchia di farina sul gomito — posò un tegame sulla soglia per far uscire vapore. Dentro, un uomo rideva a bassa voce; la risata sostava sulla soglia, poi rientrò, come una gallina richiamata. La donna vide Darin e gli fece un cenno con il mento. Non era un invito, non era un saluto: era la prova che lui esisteva nel perimetro dei suoi occhi. Quella prova bastò.

Riprese a camminare. I vicoli, con la notte, prendevano una grammatica diversa. Dove c’era un gomito d’ombra, ecco un odore di pane; dove c’era una luce sbilenca, ecco un silenzio attento. Una ragazzina correva con una brocca, il piede nudo, e rideva senza sapere perché; una vecchia, seduta su un gradino, raccontava ad una gatta storie di figli lontani. La gatta fingeva di ascoltare; in realtà contava le falene.

Una voce maschile, ubriaca della sua stessa stanchezza, si mise a intonare una canzone sporca. Non era brutta; era oscena della sincerità di chi non ha più monete per comprare le perifrasi. Una risata rispose, poi un «Ssst» secco. La canzone si fece mormorio e, poco dopo, sparì. Dal lato opposto, un suono di metallo strisciato su pietra: qualcuno, senza malizia, affilava un arnese perché in casa domani non ci fossero scuse.

Eppure, nell’orlo del buio, c’era qualcos’altro. Non un rumore, non un odore: una tensione corta, come quando si tende una corda per vedere se regge. Darin si fermò; l’aria non si mosse. Guardò oltre le case, oltre la cintura delle mura, e oltre ancora, verso la riga scura del bosco. Lì, dove di giorno la montagna tiene la fronte addormentata, la notte disegnava un profilo più appuntito. Gli venne — senza motivo — il ricordo dei passi di tre ragazzi tra i castagni, del freddo delle radici sul polpaccio, del lampo rosso di un punto, puntiforme, su metallo sconosciuto. Ma fu un pensiero breve, come le scintille che fuggono dalla cappa e muoiono in aria. Le mani tornarono alle tasche, e il corpo riprese il suo peso.

Un uomo attraversò il vicolo tenendo alta una lanterna chiusa. La fiammella, dietro il vetro, cercava vie d’uscita inutili. «Acqua!» disse l’uomo a nessuno, e nessuno gli rispose. Più avanti, un’altra lanterna, senza vetro, sputò una goccia di luce su un gatto che fuggì sdegnato. Un gruppo di ragazzi ridacchiava sotto il ballatoio dove il legno fa sempre lo stesso schiocco; uno di loro inventò un fischio insolente, e il fischio, si sa, è una moneta buona al buio: vale poco, ma si sente.

Darin passò accanto al banco del ciarpamiere. Il lenzuolo era stato ritirato; restavano sull’uscio una cassa ed una sedia. Sulla cassa, una chiave troppo grande per qualunque porta del feudo; sulla sedia, un cappello. Nessuno. Eppure, fra chiave e cappello, c’era un equilibrio che pareva cosciente: il cappello copriva la chiave come si copre un vizio. «Domani» pensò il ragazzo, e domani fu una parola che seppe di pane raffermo e promessa condita.

La notte apriva scorci sulle vite chiuse. In una cucina, una madre sbadigliava con una grazia che il giorno non le concedeva; in una stanza, un vecchio stringeva la mano di una vecchia per ripassare l’alfabeto che si erano insegnati insieme; in un sottoscala, un ragazzo contava monete senza guardarle; in una stanza alta, una donna provava il gesto con cui il mattino seguente avrebbe domato i capelli di un’altra. Il feudo non dormiva: si ripiegava su se stesso, come un mantello che cerca spalle.

Quando Darin sbucò all’imboccatura che porta verso casa, si voltò indietro. La rocca, più scura del cielo, tracciava il pensiero verticale della città. Sulla loggia, una lama pallida — forse seta, forse la coda di un lume — fece un cenno. Il giovane si raddrizzò per un attimo: gli venne addosso il ricordo della voce che non aveva sentito, su nella sala grande, quella che stava tra il sì e il no come una lama messa di piatto. Ma era tardi per le interpretazioni. Il pane, laggiù, non interpreta: si mangia.

La casa non era lontana. La via che vi conduceva aveva l’abitudine di cambiargli il respiro: prima di svolta in svolta lo accorciava, poi glielo restituiva intero. Il selciato conosceva i suoi passi meglio di lui; le pietre levigate portavano i nomi delle sue scarpe. Una finestra sopra la soglia esalò un respiro di zuppe e miele: la madre, senza saperlo, gli aveva offerto un cucchiaio d’aria. Il padre passò sullo sfondo come passano le nubi basse: non si mostrano, ma si sentono. La porta fece il suo lamento breve, quello che fa per i figli, non per gli estranei.

Darin posò la mano sul legno, senza spingere ancora. Restò con la fronte al battente, lasciando che il freddo gli entrasse nella pelle come una notizia. Dal vicolo, una voce di donna chiamò un nome di bambino e ne ricevette in cambio un «sì» con la bocca piena. Il mondo si accomodò. Un attimo prima di entrare, il ragazzo alzò gli occhi. Sopra il tetto, in un quadrato di cielo lasciato libero dalle travi, tre stelle misero in fila la loro modestia. Una di esse parve tremare più delle altre — una tremarella che gli fece venire in mente la fiamma del girarrosto, su alla cucina grande — poi smise. «Sciocchezze» si disse, e fu una parola buona come un mantello caldo d’inverno.

Appoggiò la spalla, la porta cedette con la consueta protesta di vecchia che non si decide; il legno si rimise, la casa lo prese. L’aria di dentro aveva un odore che non si compra: pane, cenere, tessuto umido, un filo di miele che non si dichiara. Il rumore dei passi del padre nel retro, la scopa della madre che si fermava perché aveva sentito il perno girare. Tutto trovava posizione, come le posate quando la tavola è piccola e le mani sono molte.

Fu allora che, dal fondo della strada, un suono breve — metallico, distante — si accese e si spense. Una cosa minima, una moneta caduta, una catena tirata e lasciata. Nessuno lo notò. Il ragazzo lo mise via in un cassetto vuoto. Domani forse quel cassetto avrebbe avuto bisogno di un oggetto.

Il piccolo suono metallico — quella moneta caduta, o catena tirata e subito lasciata — restò sospeso come un punto sopra una i, e il feudo gli mise attorno il resto della parola. Darin tornò a voltarsi verso la piazza: lo stesso selciato della prima sera, ma più lucido, come se la notte vi avesse passato un panno umido. I corvi, sulle torri, non gracchiavano: contavano. Avevano lo stesso conteggio della mattina, ma più lento, come a ripassare.

Darin chiuse alle spalle. La porta fece il suo gemito identico e familiare. Dentro, il mondo si raddrizzò. Mise il cappuccio al chiodo, si lavò le mani nel catino pulito, le asciugò nel panno che sapeva di sole vecchio. «Com’è su?» chiese la madre con quella neutralità che è la forma più alta di cura. «Freddo giusto» disse Darin, e sapevano entrambi che era la risposta esatta.

Sedette. La ciotola di minestra fumava con la compostezza delle cose che non vogliono dimostrare nulla. Mentre mangiava, le immagini del castello tornarono non come figure lontane, ma come strumenti: il peso della pedana, la riga della loggia, il segno cucito della luna mal tagliata, la voce che sta tra il sì e il no, la parola «undici» di Aldebrand, le dita di Maira che fanno della spilla una foglia vera. Tutto entrava nella minestra e vi stava bene.

Fuori, la moneta o la catena — quel suono di prima — non tornò. Ma il corvo, dalla trave, contò ancora un numero, poi si zittì. La notte si accomodò. Darin posò il cucchiaio, e il legno della tavola riconobbe la sua stanchezza come si riconosce un ospite abituale.

Quando si alzò per chiudere la finestra piccola, vide nel vetro il riflesso di se stesso con un occhio appena più grande — lo stesso difetto buono degli specchi del guardaroba alto. Ci sorrise, ma solo con la pelle. La casa aveva preso il suo posto nel feudo, il feudo aveva ripiegato il suo mantello sulla casa. Il giorno si era legato da capo a coda, senza nodo: come sanno fare le cose giuste.

Prese fiato. Domani avrebbe avuto la voce di sempre. E tuttavia — in quel respiro tra il legno e la cenere, tra la panca e la porta — nel feudo passò una piega impercettibile, come quando una tovaglia nasconde una briciola e nessuno la vede, ma tutti, senza saperlo, la sentono.

Entrò davvero, questa volta: dentro fino in fondo.