Capitolo IV — Il Villaggio

Il Villaggio

Il feudo di Valdoro non si ergeva come un’opera d’ingegno umano, ma giaceva come una malattia incrostata sul dorso della collina. Le sue mura non erano mura, ma cicatrici. Le sue torri non erano torri, ma escrescenze sproporzionate, nate da secoli di improvvisazioni. Non c’era linea, non c’era armonia: il feudo era un accatastarsi di difese, tetti, vicoli, scale, archi e toppe, come un cadavere rattoppato da chirurghi ciechi. Da lontano appariva maestoso, da vicino mostruoso: eppure, in quella mostruosità, c’era la sua forza.

All’alba, la creatura dormiva ancora. Le finestre, minuscole, erano occhi semichiusi. I camini, anneriti, fumavano pigri, come nasi che sbuffavano nel sonno. Le travi sporgevano come ossa mal saldate, gli archi si piegavano come ginocchia deformi, e le porte gemevano al primo vento, come bocche sdentate che non volevano aprirsi.

Un odore denso aleggiava sopra tutto: fumo vecchio, urina, cavalli, legna marcia, muffa. L’odore non cambiava mai, né d’estate né d’inverno: era il respiro stesso del feudo, un fiato che non conosceva stagione.

La piazza, cuore del mostro, era ancora semi addormentata. Il selciato irregolare luccicava di umidità, e in ogni buca ristagnava acqua scura, popolata di moscerini. Al centro, un pozzo di pietra, con il secchio mezzo marcio e la carrucola cigolante, pareva un occhio aperto sul ventre della terra. Accanto, una statua mutilata: un cavaliere senza volto, la spada troncata, il mantello eroso. Nessuno sapeva più chi rappresentasse. Alcuni lo chiamavano “Il Guardiano”, altri “Il Riso del Signore”, perché le crepe della bocca parevano un ghigno.

Attorno alla piazza, le case si piegavano come denti cariati. Ognuna con la sua malattia: una porta pendente, un tetto sfondato, una finestra tappata con stracci. Alcune parevano avanzare minacciose sul selciato, altre arretrare timide. E tutte sudavano umidità, colando gocce che cadevano ritmiche nelle pozzanghere sottostanti.

I primi a svegliarsi furono i mendicanti. Si trascinarono fuori dai vicoli come parassiti che non conoscono pudore. Erano figure rotte: uno senza gambe, che avanzava a forza di braccia, spingendo una tavola di legno sotto il ventre; un altro con un braccio più corto, che agitava un sacco vuoto come fosse un campanaccio; una donna cieca con occhi lattiginosi, che si fermò al centro e cominciò la sua nenia infinita.

Le sue parole non significavano nulla, ma la loro monotonia aveva il potere di trasformare il silenzio in qualcosa di più pesante. Era un canto senza melodia, senza scopo, ma che pareva trattenere la piazza dentro una ragnatela invisibile.

Un vecchio curvo, con capelli come fili di lana sporca, trascinava dietro di sé un secchio bucato. Ad ogni passo, l’acqua colava via, lasciando una scia tremolante. Lui non se ne curava: si fermava, raccoglieva altra acqua da una grondaia, riprendeva a camminare, e di nuovo la perdeva. I bambini, quando c’erano, lo seguivano ridendo, ma ora non c’era nessuno a deriderlo: solo il rumore dell’acqua sprecata e il suo passo trascinato.

I cani randagi arrivarono subito dopo, come un branco convocato da un richiamo invisibile. Magri, spelacchiati, con code ossute e occhi febbrili, riempirono la piazza con corse brevi e scatti improvvisi. Alcuni si azzuffarono, ringhiando e mordendosi con denti gialli; altri corsero ad annusare i mendicanti, quasi a contendersi il diritto di sorvegliarli; altri ancora si accucciavano presso i banchi ancora vuoti, come se li rivendicassero prima dei mercanti.

Uno di loro, più grande, salì sulla base della statua mutilata. Sollevò la zampa e segnò il cavaliere dimenticato con un getto lungo e impudico. Poi ululò, con voce profonda, e l’eco si propagò tra le case, svegliando altri cani nascosti nei vicoli.

I corvi, disturbati, si alzarono in massa dalle torri. Una nuvola nera oscurò per un istante il cielo pallido. Le loro voci gracchiarono aspre, e il rumore delle ali coprì ogni altro suono. Qualcuno giurò che i corvi non dormissero mai, che vegliassero giorno e notte sul feudo, pronti a nutrirsi dei suoi cadaveri. E quel mattino, la loro danza era presagio: presagio di mercati, di urla, di sangue fresco.

Le guardie sulle mura erano figure d’alba, più pietra che carne. Infagottate in armature arrugginite, sbadigliavano mostrando denti mancanti, si grattavano barbe dure come setole, tamburellavano con dita sporche sugli scudi. Ogni tanto uno sputo cadeva dall’alto, finendo sul selciato sottostante con un tonfo umido.

Una delle guardie, un giovane, provò a intonare una canzone. La voce era stonata, e subito un compagno gli lanciò addosso un pezzo di pane duro, facendolo tacere tra le risate. Poi tutto tornò alla monotonia: passi lenti, spostamenti pigri, occhi che non guardavano davvero.

Le porte del feudo erano ancora chiuse. Le assi di quercia, scure e screpolate, erano tenute insieme da ferri arrugginiti. Ogni tanto si muovevano, cigolando come polmoni che inspirano. Le cerniere gemevano, e quel gemito si propagava nella piazza come un avvertimento.

Davanti all’arco della porta nord, un mendicante sdraiato sembrava un cadavere. Aveva le braccia spalancate e le labbra che mormoravano parole incomprensibili. Ogni tanto una guardia lo scacciava con un calcio pigro, ma lui tornava sempre, come se fosse parte della porta stessa, una radice che non si poteva estirpare.

All’alba c’erano anche i lavoratori più poveri. Un gruppo di donne, con scialli sbrindellati, portava cesti di verdure bagnate di rugiada. Camminavano curve, come piegate da pesi invisibili, e si fermavano a ogni passo per sollevare il respiro. I loro occhi erano spenti, ma le mani si muovevano con ostinazione. Si sistemavano ai margini della piazza, su stuoie fradice, e aspettavano clienti che ancora non c’erano.

Un contadino entrò spingendo un carro vuoto. Le ruote cigolavano, lasciando solchi profondi. L’uomo aveva un volto segnato, la barba arruffata, i piedi nudi infangati. Ogni passo era un lamento, e ogni lamento si perdeva nell’eco della piazza. Si fermò vicino al pozzo, fissò l’acqua scura, e sputò dentro, come se volesse liberarsi di un pensiero che lo tormentava.

Dalle cucine del castello arrivò l’odore di cipolla e grasso. Le cucine erano sempre le prime a svegliarsi: un brulicare di servi invisibili che accendevano fuochi, spezzavano ossa, macellavano carni. Il loro lavoro non si vedeva, ma la piazza lo sentiva: fumi, odori, vapore che si mescolavano con l’aria ancora fredda.

La piazza era ancora vuota, ma già piena. Ogni figura isolata era un presagio, ogni suono un’anticipazione. Il feudo si stava stirando, come un corpo che si prepara alla fatica del giorno. Le torri scricchiolavano sotto il vento, i corvi volavano in cerchio, i mendicanti gemevano, i cani abbaiavano, le donne posavano i cesti, le guardie si scacciavano la noia.

Il sole saliva lentamente, e la luce cambiava i colori. Le pietre si facevano più gialle, il fango più marrone, i tetti più neri. Le ombre dei corvi allungavano arti deformi sulle case, e le facce dei mendicanti si coprivano di nuove rughe.

Era l’ora prima del mercato, la più silenziosa e la più inquieta. Tutto era attesa, e l’attesa era più pesante del rumore che sarebbe venuto.

In quell’attimo sospeso, un ragazzo passò accanto alla piazza. Non entrò, non si fece notare: si fermò nell’ombra di un vicolo e guardò. I suoi occhi seguirono le figure isolate.

Era Darin. Silenzioso, immobile, con la pelle che odorava ancora di ferro e di fumo della fucina. Guardava il feudo come si guarda un animale enorme: non per sfida, non per curiosità, ma per capire se quel respiro lento era minaccia o promessa.

La piazza , in quell’ora sospesa, era come un palcoscenico in cui gli attori si muovevano già, ma senza pubblico. Ogni figura sembrava recitare per sé stessa, prigioniera di un copione che nessuno aveva scritto.

Un uomo alto, con una gobba enorme sulla schiena, attraversava lo spazio a passi lenti, portando sulle spalle un fascio di rami secchi. Il fascio era così grande che lo piegava in avanti, rendendolo simile a un insetto che trascina il proprio guscio. Si fermò vicino alla statua mutilata, lasciò cadere i rami con un tonfo secco, e rimase a fissarli come se fossero corpi caduti in battaglia. Poi riprese a muoversi, scomparendo in un vicolo senza salutare nessuno.

Vicino al pozzo, un ragazzino magro, con una tunica strappata, lanciava sassi nell’acqua scura. Ogni colpo produceva un suono cavernoso che risuonava nelle viscere della terra. Il bambino rideva da solo, come se stesse conversando con qualcosa là sotto. Dopo l’ennesimo sasso, si fermò, come in ascolto. Poi scappò di colpo, lasciando cadere i ciottoli che stringeva nelle mani.

Una vecchia con un fazzoletto lurido in testa si mise a urlare all’improvviso. Nessuno le prestò attenzione. Le sue parole erano confuse, ma i gesti chiari: puntava il dito contro le mura, contro le torri, contro il cielo. Gridava maledizioni a tutto e a tutti, come se fosse l’unica rimasta a ricordare un torto antico. Dopo qualche minuto, perse fiato, cadde a sedere e rimase lì, con la bocca spalancata, a respirare a vuoto.

Sulle mura, intanto, le guardie si scambiavano gesti pigri. Una si tolse l’elmo e si grattò la testa pelata, mostrando una cicatrice che gli attraversava il cranio come un solco arato. Un’altra si accasciò su un barile e iniziò a russare. Una terza, con un’armatura troppo grande, camminava su e giù cercando di imitare un passo marziale, ma il suo incedere era ridicolo, e i compagni ridevano.

Dall’alto cadevano piccoli detriti: frammenti di pietra, pezzi di ferro, gocce di ruggine. Sembrava che anche le mura partecipassero a quel lento risveglio, scricchiolando, tossendo, sputando i resti della notte.

Le torri, gonfie e sproporzionate, si stagliavano contro il cielo che andava schiarendo. Ogni feritoia era un occhio cieco, eppure minaccioso. Dai merli, i corvi continuavano a muoversi, come guardiani neri. Alcuni scendevano in picchiata per afferrare pezzi di pane vecchio lasciati dai mercanti il giorno prima. Si azzuffavano tra loro, strappandosi brandelli di cibo con beccate feroci. Le loro grida riempivano l’aria, creando un concerto rauco e crudele.

Un mulo comparve spingendo da solo un carretto. La corda che lo legava era spezzata, e il padrone non si vedeva. L’animale avanzava lentamente, con occhi velati e fiato pesante. Il carretto traballava, scricchiolando, e dentro c’erano solo stracci e vecchi ferri. Alcuni mendicanti si avvicinarono, rovistarono tra gli oggetti e litigarono per un pezzo di legno marcio. Il mulo, indifferente, proseguì fino a fermarsi davanti al pozzo, dove restò immobile, come una statua tra le statue.

Intanto un gatto nero, magro e lungo, camminava lungo il bordo dei tetti. Le sue zampe leggere non facevano rumore, e i suoi occhi brillavano come due pezzi di vetro lucido. Si fermava, osservava dall’alto, poi spariva dietro un comignolo. Alcuni lo consideravano un presagio di morte, altri un portafortuna. Ma il gatto non apparteneva a nessuno: era un’ombra che il feudo produceva da sé.

Sotto l’arco della porta sud, due uomini litigavano. Uno era un carrettiere con il volto rosso e gonfio, l’altro un vecchio con la barba bianca. Urlavano uno contro l’altro per chi dovesse passare per primo quando i battenti si sarebbero aperti. Il carrettiere brandiva una frusta, il vecchio un bastone nodoso. La loro lite attirò i mendicanti, che si radunarono ridendo e tifando, come spettatori di una farsa.

Alla fine, una guardia intervenne, ma non con decisione. Si limitò a puntare la lancia contro il vuoto, borbottando minacce stanche. Gli uomini si separarono senza convinzione, ma continuarono a insultarsi a distanza, promettendo vendetta.

Il sole, salendo, scoprì dettagli che la notte aveva nascosto. I tetti, anneriti, erano pieni di buchi coperti da assi marce. Le grondaie traboccavano di sporcizia, da cui pendevano fili d’acqua verde. Le finestre, piccole e sporche, erano occhiaie da cui spuntavano volti curiosi: donne spettinate, vecchi senza denti, bambini con mani luride. Ognuno guardava senza partecipare, come se il feudo si risvegliasse a strati: prima gli occhi, poi le bocche, poi i corpi.

Dalle cucine del castello giungevano rumori ancora più forti: pentole sbattute, coltelli che tagliavano, voci che gridavano ordini. Il giorno stava iniziando davvero.

In quel caos ancora incompiuto, Darin rimase fermo all’ombra del vicolo. Non faceva parte della scena, ma non ne era fuori. I suoi occhi seguivano ogni figura, ogni movimento: il mendicante steso come un cadavere, la donna cieca che cantilenava, i corvi che litigavano sopra la statua, il mulo senza padrone.

Non provava né stupore né disgusto. Solo un silenzioso riconoscimento. Quello era il feudo. Non il lavoro della fucina, non la fatica dei campi, non l’ordine della madre né le parole della sorella. Era altro. Era la creatura che respirava intorno a lui, il ventre che inghiottiva e restituiva, che urlava e taceva, che prometteva e tradiva.

Il suo cuore batteva al ritmo del mercato che ancora non c’era. Sentiva che, quando la folla sarebbe arrivata, il rumore lo avrebbe sommerso. Ma in quell’attimo sospeso, con il sole che saliva lento e i corvi che oscuravano il cielo, Darin percepì qualcosa di più: il feudo non era solo un luogo. Era un destino.

La statua mutilata al centro, il cavaliere senza volto, parve fissarlo con la sua bocca spezzata. I corvi sopra gracchiarono, e per un istante il ragazzo ebbe la sensazione che quella bocca stesse ridendo. Non di lui, non dei mendicanti, non delle guardie. Rideva dell’intero feudo, della sua stessa esistenza.

E Darin, senza rendersene conto, sorrise appena.

Il suo sorriso si sciolse nell’aria umida come un respiro sul vetro; e proprio allora, quasi in risposta, la piazza si mosse. Non fu un singolo gesto, ma una somma di tremiti: una porta che si aprì con un cigolio più lungo degli altri, un colpo di tosse che rimbalzò sulle pietre, il primo rumore di ruote che tagliava il fango in strisce lucide. L’alba, fino a poco prima tutta ossa e silenzi, si mise ad articolare parole, sillabando lentamente il primo mercato del giorno.

Dal vicolo a ovest uscì un carro basso, coperto da una tela che sembrava la pelle di un animale flaccido. Le ruote, gonfie di fango, si incastravano nelle buche e ne uscivano con schiocchi sordi. A guidarlo c’era un uomo con un cappello di feltro sfondato sulla sommità, come se qualcuno vi avesse appoggiato un pollice per spegnergli la fronte. Il suo bue, occhio lattiginoso e fiato caldo, avanzava con la pazienza di chi ha fatto quel tragitto mille volte. Nell’aria si sparpagliò un odore di legumi secchi e sacchi di farina: polveri invisibili che si posavano sulla lingua e sulla gola, lasciando una sete senza motivo.

Poi fu il turno della spezieria ambulante. Un uomo dalle dita gialle ne conduceva la danza. Aveva i sacchetti legati con fili rossi e verdi, e quando li depose sul banco improvvisato, la stoffa rilasciò scie di colore nell’aria: curcuma come sabbia del sole, pepe come punture di insetto, semi d’anice simili a piccoli occhi lucidi. L’uomo tossì, poi rise: era una risata impastata di polvere, che fece tossire a sua volta i due mendicanti più vicini. «Spezie!» disse con voce sbrecciata. «Spezie per chi deve amare e per chi deve guarire!» Nessuno gli rispose, ma due donne si avvicinarono, sospinte dal profumo e da un’antica speranza di sapori nuovi.

Dal lato opposto comparvero le gabbie. Le portavano due fratelli, larghi di spalle e corti di gambe, con mani che parevano padelle rovesciate. Dentro, polli e conigli sbattevano contro le asticelle, producendo un suono secco, come un rosario di legno che batte su una tavola. Le piume volavano e si incollavano alle facce sudate dei due, trasformandoli in buffe maschere di carne e cotone. «Vivi!» gridò il maggiore. «Vivi e grassi! Guardate come sono grassi!» Un gallo, irritato dal vanto, si mise a starnazzare con un furore che sfiorò l’isteria; parve a tutti che quel grido contenesse parole precise, antiche, segrete. La donna cieca, che già cantilenava al centro, cambiò di un tono la sua nenia, come se avesse riconosciuto un accento conosciuto.

La statua del cavaliere spezzato, intanto, prese il suo posto nella recita quotidiana: un corvo scese con un colpo d’ala e portò via qualcosa dal piedistallo — forse un verme, forse un brandello di pane rimasto dal giorno prima — e un cane, vedendolo, lo inseguì con una corsa corta e violenta che durò tre passi e si concluse con un abbaio frustrato. Il corvo si posò su una trave sporgente proprio sopra la testa di un banditore rachitico, che stava provando la voce. Era un uomo d’ossa lunghe e pelle stretta, che teneva una campanella appesa a uno spago e la scuoteva con foga; ma il suono che ne veniva era più triste che autorevole, come se la campana ricordasse tempi in cui era stata più lucida e non volesse darsi pena per il presente.

«Per ordine del Signore…» gracchiò il banditore, e la somiglianza con il corvo, in quel momento, fu così perfetta che qualcuno rise a mezza bocca. «Per ordine del Signore…» ripeté, ma la sua voce gli si impigliò nel muco, e la campanella si spense in un gorgoglio metallico. «Tasse…» disse allora, come se sputasse una lisca. La parola cadde pesante, inutile: la piazza la assorbì senza reagire, come si assorbe una pioggerellina senza interrompere il cammino.

Arrivarono i caseari, con forme di formaggio gonfie come ginocchia d’elefante. Le appoggiarono su tavole traballanti; l’odore ne scappò subito, grasso e forte, e si attaccò ai capelli dei passanti come colla tiepida. «Buono!» disse uno dei due, che aveva una faccia pallida e due occhi piccoli come semini. «Buono da far piangere chi non può permetterselo.» Una battuta, ma su cui non rise nessuno. La povertà aveva il vizio di non divertirsi mai, neppure quando le si offriva un sorriso.

Dall’arco nord entrò un carretto di erbe e radici. Le ciocche di cipolle pendevano come lampadari di poveri saloni, le barbine delle carote tremavano a ogni sobbalzo, le rape facevano branco sul fondo, come animali in letargo. Una vecchia dalle braccia venate agitò un mazzo di prezzemolo con gesti da maga: ne uscì un odore verde e umido, di terra e acqua, che per un istante spazzò via la cipolla calda e il grasso delle cucine. Un ragazzino, quello dei sassi nel pozzo, allungò una mano e rubò una foglia; la masticò lentamente, con una serietà che gli rese il volto inspiegabilmente adulto.

Le botteghe iniziarono ad aprire gli occhi. Le imposte, rigide come palpebre con orzaioli, si staccarono dai ganci con un lamento. Da una bottega uscì lo stagnino, con il martelletto già pronto a dir di sé; dal fondo arrivò il rumore d’acqua calda che riceveva dentro di sé vecchie pentole, scodelle, tegami: un bagno rumoroso, una cura tiepida che prometteva una seconda giovinezza agli oggetti sbeccati. Lo stagnino parlava ai metalli come fosse il loro medico di fiducia, e a ogni pezzo che prendeva in mano dava del “tu”, in un confondersi di cortesia e pretesa. «Tu parli troppo» disse a una brocca che perdeva dal becco; «tu taci quando dovresti cantare» rimproverò a una teglia così fonda che sembrava un pozzo. E intanto martellava, delicato e implacabile, con colpi brevi e regolari, avvitando il giorno al suo ritmo.

Il bottaio arrivò ultimo, grasso come un bimbo e scuro come la pece. Portava un barile sulle spalle e le sue gambe corte parevano quelle di un tavolo che cammina. Posto il barile in verticale, gli diede un colpetto come un padre alla testa del figlio, poi si tolse il cappello e sputò a lato con una precisione che divenne subito proverbiale. «Zitti» disse ai suoi tini. «Zitti finché non ve lo dico io.» Ovviamente, i tini non dissero nulla; ma un cane, preso da improvvisa devozione, si sedette a guardare quell’uomo come si guardano i santi: aspettandosi un miracolo.

La folla cominciò a salire di tono. Non era ancora ressa, ma un montare di frasi che si intersecavano, si frantumavano, si bevevano a vicenda. Il banditore, rianimato, riuscì a dire: «Per ordine del Signore… domani…» e a quel “domani” la gente si distrasse, perché il domani è un animale che non morde mai oggi. Una donna dalle mani screpolate tentò di contrattare il prezzo di due carote; il contadino le rispose con un’alzata di spalle che conteneva l’inverno passato e quello a venire. Un merciaio vacuo, con gli occhi cisposi, stese sul banco una stoffa color fiume in piena, ma bastò un filo di luce per rivelarne i buchi; lo piegò veloce, come chi nasconde un imbarazzo, e sorrise con troppi denti.

Al margine della piazza si vide comparire una figura nuova: un pellegrino. Si capiva dal cappello con la conchiglia, ma anche dalla stanchezza solenne che lo avvolgeva. Aveva una bisaccia povera e un bastone nodoso; il suo passo era regolare, come una preghiera sussurrata tra i denti. Si fermò davanti alla statua mutilata e, invece di fare il segno della croce, toccò la pietra con due dita e sussurrò qualcosa che nessuno udì. Gli passò accanto un bambino con in mano una mela verde e lo guardò come si guarda un mulo: con rispetto e perplessità. Il pellegrino ripartì, inghiottito dalla folla, e lasciò dietro di sé un odore di pioggia vecchia.

Intanto, sotto la trave dove il corvo aveva banchettato, si formò una piccola corte di bambini. Erano sporchi, vivi, con le ginocchia stellate di croste. Uno mostrava agli altri una moneta grande come un occhio di pesce: era di rame, ma il ragazzo la teneva come fosse d’oro; la faceva saltare nel palmo, e ogni rimbalzo faceva “tin” contro le ossa: una musica che procurava invidia immediata. Un altro tirò fuori dalla tunica un chiodo lungo e storto, e dichiarò che valeva due mele; nessuno lo smentì: nel mercato del desiderio, anche un chiodo può valere un frutto. La donna cieca cambiò tempo alla sua nenia; sembrò per un attimo che cantasse proprio per loro, o con loro, un gioco segreto sotto il brusio di tutti.

Le guardie, da sopra, sbadigliarono insieme, come se avessero una sola bocca, enorme e addormentata. Una di loro fece cadere un pezzo di pane raffermo; un cane lo afferrò in aria con un salto che parve per un attimo quasi elegante. Dalla cucina del castello esplose una risata: qualcuno si era tagliato un dito, e un altro aveva risposto con una bestemmia che fece arrossire il cielo. Il fumo s’infoltì, presto avrebbero lessato le ossa per il brodo del mezzodì, e quell’odore grasso, brutale, si diffuse come una promessa e una minaccia insieme.

Darin non si era mosso dal suo angolo. Osservava come si osserva un fiume che cresce: il livello sale senza che tu possa indicare il momento in cui davvero è salito. Gli giungevano frammenti, e ognuno si legava all’altro con un filo invisibile: la risata degli stallieri, il passo strascicato del gobbo, la campanella malata del banditore, lo scrocchiare di una carota appena spezzata, il colpo secco della pala del bottaio sul cerchio di ferro. Gli pareva che tutto avesse ritmo, anche ciò che appariva scomposto. Il feudo, come un animale con molte teste, stava mettendo d’accordo le sue bocche.

Un vecchio in cappuccio, che molti chiamavano lo Scriba Cieco, si fece largo con il suo libro unto sotto il braccio. Non ci vedeva quasi più, ma sapeva esattamente dove mettere i piedi: li posava sulle pietre come chi ritorna in un ricamo da lui stesso inventato. Si fermò vicino al banco delle erbe, aprì il libro a caso, e mostrò a una donna le pagine come se fossero una reliquia. «Parole antiche» disse con una voce cava. «Portano fortuna a chi compra oggi.» La donna non sapeva leggere, lui non sapeva più vedere, ma il rito era completo: la donna comprò due fasci d’aglio, l’uomo richiuse il libro e proseguì, con la certezza di aver venduto un anello invisibile.

Il nano dei dolci fece la sua entrata come un tuono muto. Trascinava un banco su ruote, piccolo come lui, e già la lingua gli correva come un furetto. «Miele per bocche tristi! Zucchero per vedove bianche! Torrone che spezza i denti ai cattivi!» I bambini accorsero, alcuni più per la sua voce che per i suoi dolci, che avevano sempre un’aria un po’ lorda. Lui brandì il bastoncino come una bacchetta, colpì più volte l’aria e — senza toccare nessuno — ordinò la fila come solo un tiranno da due palmi sa fare. Un corvo gli volò a un dito dal naso; il nano gli fischiò contro con un suono così acuto che il corvo cambiò idea e salì di quota, offeso.

A ovest, dove la piazza s’allargava in una tasca di pietra, una rissa nacque come nasce un brufolo: all’improvviso e senza eleganza. Un merciaio e un contadino si accusavano a vicenda d’aver pestato la merce dell’altro; le parole salirono velocemente di gradazione, come latte sul fuoco; qualcuno scommise su chi avrebbe dato il primo pugno; una donna, che non c’entrava, decise di piangere per conto di tutti, e lo fece con una dignità da santa del mercato. Le guardie non scesero: si limitarono a guardare dall’alto, con un interesse pigro. La rissa sfiorì da sola, senza vincitori: il merciaio raccolse stracci e orgoglio, il contadino si rimise a vendere patate con un broncio che faceva venire voglia di comprarne due in più per compassione.

Dalla porta sud si udì invece il rombo breve di un tamburo. Non era una marcia, né un annuncio solenne; più il colpo di prova di un tamburino che s’era ricordato d’avere un tamburo. Quel colpo si sfilacciò nell’aria, ma lasciò una vibrazione. Darin la sentì nelle ossa. Poi, per qualche secondo, tutto parve sincronizzarsi: il martello dello stagnino, la pala del bottaio, il tossicchiare del banditore, il gracchiare dei corvi, il borbottare delle pentole. Era un’orchestra sgangherata, ma vera, e ciascuno suonava la parte che sapeva. La piazza prendeva vita come una cicatrice che, al posto di dolere, comincia a cantare.

Un venditore di coltelli stese su un panno dieci lame, e il sole — finalmente deciso — vi si posò sopra come su dieci pezzi di giorno. Le lame restituirono luce; un uomo che passava si toccò il petto, come per scacciare un presagio. «Tagliano la pelle e i pettegolezzi» promise il coltellaio con voce morbida. «E che prezzo?» chiese una donna che aveva gli occhi come due chicchi bruciati. «Sempre meno del sangue» rispose il venditore, e fu il suo miglior affare del mattino: non per il denaro, ma per aver lasciato nell’aria una frase che restò appesa come una ragnatela.

Intorno al pozzo, la calca crebbe. Chi tirava su acqua, chi lavava una radice, chi si guardava il riflesso tentando di domare un ciuffo ribelle con dita sporche. Un ragazzo lasciò cadere una moneta e tentò di seguirla con lo sguardo, come se potesse afferrarla con gli occhi. «È andata a sposarsi in fondo» disse una donna, e tutti risero con parsimonia. La carrucola cigolò in risposta, invecchiando di un anno nel giro di un minuto.

Darin seguiva, muto, queste traiettorie minime come si seguono gli scarabocchi su un muro: più guardi, più ne trovi, e ogni linea ti dice qualcosa che non sapevi di voler sapere. La piazza, nella sua pancia larga, lo stringeva senza toccarlo. Gli parve per un attimo che, se avesse chiuso gli occhi, avrebbe potuto indovinare dove si trovava ciascuno: il nano dei dolci a sinistra, perché il suo fischio gli pungeva la tempia; il banditore dritto, perché la campanella gli schizzava contro i denti; il bottaio dietro, perché ogni sua pala gli bussava alle scapole; i corvi sopra, ovunque sopra, come una pioggia mai caduta.

Un vecchio mendicante, quello che si trascinava sulle mani, raggiunse il banco del formaggio. Il venditore, preso a vantare la crosta e la muffa, non lo guardò; ma la moglie, che aveva occhi pieni di parentesi, si chinò e gli passò un ritaglio grande come un’unghia. Il mendicante lo prese con una lentezza religiosa, come si prende un’ostia, e lo posò sulla lingua. Per un secondo, tutta la sua faccia si accese: non per bontà del formaggio, ma per la sensazione precisa d’essere stato visto.

La mattina, a quel punto, era entrata davvero nella piazza. Non era più alba, non era ancora mezzogiorno; era quell’ora densa in cui ogni cosa ha scoperto la sua voce, e nessuno è ancora stanco di usarla. Il banditore, rinfrancato, trovò finalmente un filo di tono: «Per ordine del Signore…» iniziò di nuovo, e la parola “ordine” fu un sasso nell’acqua — non spaventò i pesci, ma li costrinse a cambiare direzione. La donna cieca modulò la nenia in un modo che ricordava vagamente un inno; il pellegrino, già lontano, venne sostituito da due mulattieri che si scambiarono bestemmie come saluti; il nano vendette due bastoncini di zucchero a una coppia di innamorati che li mordevano a turno, e se li restituivano come fossero promesse.

Darin abbassò per un istante lo sguardo verso le sue mani: portavano ancora minuscoli graffi di scintille e righe sottili di fuliggine; ma tra le dita, invisibili, sentì scorrere i fili della piazza, come se quella creatura di pietra, fango, odori e voci gli avesse appoggiato sul palmo la sua lana viva. Quando rialzò gli occhi, la piazza era diventata più grande di un attimo prima. Questo accadeva spesso: al feudo bastava un sospiro per cambiare statura.

E, come se avesse udito il suo pensiero, la piazza gli rispose con un gesto: da sotto la trave del corvo calò un’ombra nuova, e con l’ombra la promessa di una scena successiva — un piccolo tumulto che stava nascendo accanto al banco dei coltelli, un bisticcio in miniatura che avrebbe avuto bisogno di occhi per essere visto e di lingua per essere raccontato. Darin non si mosse. Lasciò che fosse il feudo, ancora una volta, a venire verso di lui.

Il piccolo tumulto prese corpo come una bolla che sale lenta e poi scoppia: accanto al panno dei coltelli, un uomo dal collo corto e la nuca rossa aveva posato la mano su una lama, giurando che il prezzo detto era diverso da quello “promesso ieri a voce”. Il coltellaio sorrise come sorridono le feritoie: un taglio stretto. «Le promesse sono del vento, le lame della mano» disse piano, con una voce che si allargava a ventaglio. L’altro storse la bocca in una smorfia che sembrò una ferita di pane: «A me il vento non frega, a me serve il taglio»; e picchiettò l’indice sulla lama come si picchietta su una bara, per sentire se dentro c’è davvero qualcuno.

Qualcuno ridacchiò; qualcuno tacque con gusto. Il banditore agitò la campanella senza convinzione. Il nano dei dolci, che vedeva in ogni diverbio una possibilità di vendere zucchero come consolazione, si fece sotto con due bastoncini già mezzi morsi: «Per addolcire la lingua prima di tagliarla» trillò. Il coltellaio lo zittì con un gesto del polso, sottile e pericoloso. Il cliente dalla nuca rossa si affacciò sul baratro di una parola grossa, poi ci rinunciò. «Domani» disse, sputando una nocciolina immaginaria. «Domani il prezzo sarà giusto.» Il domani gli tornò indietro in faccia come una mosca che non si lascia scacciare. Alla fine pagò, prese una lama, e se ne andò con la tipica andatura degli uomini che hanno perso ma vogliono sembrare più leggeri del loro fallimento.

La piazza, come un animale distratto, già guardava altrove. Un venditore di ciarpame si era piazzato con un lenzuolo punteggiato di oggetti che sembravano il contenuto di una tasca di gigante: bottoni senza camicia, chiavi senza porte, pettini senza denti, fibbie senza cinture, tre cerniere con la lingua morta, una lente crepata che faceva vedere ogni cosa invecchiata di dieci anni. «Tesori» sussurrava. «Tesori per chi sa a cosa servono.» Non lo sapeva nessuno, naturalmente, e proprio per questo due ragazzini comprarono il pettine senza denti per farne un pettine per i corvi, e un vecchio acquistò la chiave più grossa giurando che avrebbe trovato la porta giusta o, se non la trovava, avrebbe costruito lui la porta.

Nell’angolo, tra bottaio e formaggiaio, due donne si azzuffarono per una ciotola scheggiata; la ciotola, con una dignità che pareva venire dal suo spigolo mancante, resistette a entrambe, e fu il bottaio a decretare il giudizio solenne: «Chi la lascia prima, la compra l’altra.» Così accadde, e la vittoriosa se ne andò col trofeo tenendolo con una cura sproporzionata al suo valore; la sconfitta la inseguì con parole che sapevano di pelle di capra, e per un poco la piazza profumò di rancore fresco.

Al pozzo, lo Scriba Cieco si era messo a leggere ad alta voce pagine senza lettere. Non leggeva parole, ma il suono della lettura era perfetto: pause al punto giusto, inflessioni a capoverso invisibile, sospiri in luogo di virgola. La gente si fermava a bocconi: uno per una riga, due per un paragrafo, qualcuna per un capitolo intero, benché non ci fosse trama e i personaggi fossero il vento, l’acqua del pozzo e il cigolio della carrucola. Quando chiudeva il libro, un odore di cuoio e dita rimaneva sospeso come un sipario. Allora qualcuno pagava, non per le parole, ma per il diritto di essere stato dentro una lettura.

Dal lato dei pollai ebbe luogo il consueto miracolo rovescio: un gallo fuggì di scatto dalla gabbia, si arrampicò sulle casse di legno, fece due passi solenni come un ambasciatore in visita e, fatto silenzio attorno, cantò. Non fu un canto: fu un lamento d’amore per una gallina che esisteva solo nel suo cervello caldo. I fratelli dalle mani-padella si scagliarono per riprenderlo, uno con un salto goffo, l’altro con un cappio di spago che fu, per un secondo, perfetta scultura dell’aria. Il gallo si lasciò prendere con dignità offesa; a faccende concluse, un bambino fece un inchino al volatile, e il volatile gli rispose con uno sguardo che parve, a chi volle, un ringraziamento.

Il venditore di spezie, intanto, s’era messo a raccontare storie di mari lontani per vendere cumino a chi non cucinava mai. «Ci sono paesi» diceva «dove la sabbia sa di cannella e la notte si mangia al cucchiaio.» La sua mano gialla disegnava dune nell’aria, e sulle sue unghie era rimasto un secolo di curcuma. Una donna rideva con gli occhi chiusi, perché con gli occhi aperti lo stomaco le ricordava che il mare, per lei, era un brodo annacquato. Il venditore isolò una boccetta, piccola come un peccato: «Questa si apre solo il giorno in cui si vuole ricordare di aver vissuto.» Non la comprò nessuno: tutti avevano promemoria più economici.

Sotto la cornice sbrecciata di una finestra, tre uomini giocavano a dadi con impegno da teologi. Le dita facevano danzare i cubi come se dalle facce dovesse scaturire una dottrina definitiva; di tanto in tanto, uno di loro gettava un’occhiata al cielo per capire se i corvi preferissero il pari o il dispari, come se il destino degli uccelli potesse servire da nota a piè di pagina. Vinsero e persero tutti e tre, com’è destino dei giochi rimasti in vita solo per giustificare la parola «attesa». Uno dei tre, quello col naso spezzato, guadagnò una pera ammaccata; la portò via tenendola alla luce, quasi volesse leggere nel frutto la frase che gli era mancata per finire una preghiera.

Più in là, una sarta aveva steso su una corda un rosario di vestiti poveri. Ogni capo portava una cicatrice nuova: una toppa come un continente, una cucitura come una frontiera. Le donne toccavano con due dita, diffidenti come davanti a un gatto dallo sguardo troppo umano. La sarta parlava piano, come si parla a un neonato già vecchio: «Tiene» diceva, palpeggiando la stoffa salvata. «Tiene anche se lo lavi.» Una compratrice annuì, tirò fuori tre monete e un segreto: pagò con le prime, affidò il secondo al silenzio.

Darin — sempre nell’ombra, sempre con l’orecchio che impara e l’occhio che incamera — seguiva con una costanza senza ansia. Non c’era nessuna meraviglia, ma una familiarità che ogni giorno si allargava come un callo: il mondo non faceva cose nuove; le stesse cose prendevano luce nuova, e quella luce era già una storia. Se avesse dovuto dire dov’era in quel momento il cuore della piazza, avrebbe indicato tutto: il nano che fischiava, lo stagnino che sgridava una bacinella, il bottone gigante sul lenzuolo del ciarpamiere, il coltello posato come una riga d’argento, la ciotola scheggiata arricchita d’orgoglio, il grido del gallo messo a referto nel quaderno inesistente dello Scriba Cieco.

Dalle cucine del castello scese un odore nuovo: fegato soffritto. La parola «fegato» passò di bocca in bocca come uno sputo che nessuno si prende: «Fegato!» gridò un cuoco dalla finestra, e qualcuno lo fischiò per ringraziarlo. Un cane, udito quell’annuncio, sedette come un parente invitato a pranzo; una bambina gli legò un nastro al collo, e lui divenne immediatamente un’altra cosa: un animale in festa. Il banditore colse l’onda e, con una voce che finalmente aveva trovato una scala, annunciò una sciocchezza di gabella come fosse la nascita di un figlio. Le donne sospirarono: non per la gabella, ma per la distanza siderale tra gli annunci e i piatti; gli uomini scrollarono; i bambini raccolsero dal suolo parole nuove da mettere in tasca.

Nello spigolo dove la piazza si stringeva contro un muro con la muffa a minio, un saltimbanco comparve come compare un cerotto: dove non serviva, ma piacque lo stesso. Aveva una palla di stracci che lanciava in aria con l’aria di impartire una lezione di gravità. La palla descriveva archi incerti, e ogni volta pareva sul punto di fuggire per diventare luna, ma poi gli ricadeva nel palmo come un debito che si ricorda da solo. Tre bambini gli si misero davanti con la fede dei devoti; il saltimbanco se ne accorse e si mise a perdere apposta, perché c’è spettacolo solo nella caduta. Ogni errore era un fiorire di risate, ogni ripresa un insegnamento di respiro. «Vedi» disse a un bambino, mentre la palla faceva capolino dietro il suo collo. «La cosa più difficile non è lanciarla: è aspettarla.» E tutti capirono, senza saperlo.

Vicino al banco delle lame, il coltellaio affilava come si prega: col corpo fermo e il braccio che va e viene, una devozione che non ha bisogno di chiesa. La pietra cantava piano, una nota lattiginosa. Un vecchio gli portò un coltello con il manico spaccato, che portava nel legno il sudore di tre generazioni; lo posò sul panno come si depone un parente su un letto troppo corto. «Non ne faccia uno nuovo» disse. «Gli ridia il nome.» Il coltellaio annuì senza teatro, come fanno i confessori quando sanno già che il perdono e il peccato sono la stessa cosa.

Un odore di cavolo bollito si alzò da un pentolone che una donna aveva trapiantato in piazza dalla sua cucina. Nel vapore si scrissero delle figure: un uomo con un cappello di latta, una torre sdentata, tre corvi appesi a un filo invisibile. La donna mescolava con una decisione che faceva sembrare il mestolo un’arma; a ogni giro distribuiva bicchieri di brodo a prezzo d’amicizia per chi aveva nome e di punizione per chi non l’aveva. Una volta ogni tanto, una goccia di brodo le scappava sul dorso della mano; non diceva «ahi», ma «domani», come se quel bruciore arrivasse sempre il giorno dopo.

Su un gradino, due innamorati si scambiarono la metà di un torrone. Lo spezzarono male, con una irregolarità che stava bene alla loro goffaggine. Gli zuccheri si appiccicarono ai denti e alle parole; i loro baci sapevano di mandorla e promessa. Il nano li guardò con un disprezzo educato, poi si mise a lucidare con la manica una mela candita che, nella sua perfezione rossa, pareva un sì detto male. Nessuno la comprò: le cose perfette hanno pochi clienti in un mercato di crepe.

La tensione che attraversa ogni mattina la piazza — quella che decide se un coltello vola o se un sorriso basta — quell’oggi oscillò, come un filo steso tra due finestre. Il bottaio intervenne in una ulteriore lite tra due stallieri solo con la sua risata, e la risata fu una corda che legò le mani di entrambi; lo stagnino otturò una crepa non con lo stagno, ma raccontando alla brocca una storia di mare fino a che la brocca si fece attenta e smise di perdere; il banditore, per una volta, chiuse la campanella e fece «ehm», e quel colpo di gola fu più autorevole di dieci decreti.

Darin, come sempre, si accorse che era l’ora giusta quando i corvi smisero di comandare. Li vide cedere il cielo al brulichio, accomodarsi sulle travi e dedicarsi a piccoli furti di briciole, come burocrati che finalmente si concedono una sbavatura. L’odore delle cucine e quello dei banchi s’era sposato; il fumo aveva trovato le sue strade verso le finestre; le ruote dei carri avevano scavato valli e le avevano già riempite. Tutto aveva trovato il suo esatto posto sbagliato.

Fu allora che la piazza — sazia di sé — cominciò a spingere verso i bordi. Le persone, come grani sotto un palmo, scivolarono nelle vene dei vicoli. Non era solo il bisogno di ombra o di prezzo migliore; era la curiosità dei luoghi più stretti, dove le cose si vedono da vicino e gli odori si fanno singolari. Il mercato aveva fatto il suo dovere di teatrante: adesso voleva che gli spettatori entrassero dietro le quinte.

Darin alzò lo sguardo verso l’imboccatura di un vicolo a est. Era una fessura di muro con una ruga d’acqua che la percorreva dal tetto alla terra; dentro, la luce si faceva sottile come una lama affilata di fresco. Dalla fessura venivano suoni diversi: il battere breve di un martelletto da orafo, il sibilo di uno scaldino da stagnino minore, la risata soffocata di qualcuno che trattava una vergogna come un favore. Gli parve che il feudo gli avesse appena fatto un cenno con il mento: «Entra, se vuoi capire.»

Sotto la trave del corvo — che ora si addormentava con la pancia piena e gli occhi vigili — il banditore fece l’ultimo annuncio della mattina: qualcosa sugli argini del fiume, una riparazione, una tassa più piccola della parola “tassa”, una minaccia più lieve di un ceffone. Nessuno lo ascoltò con serietà, e lui, stanco, scese dal suo barile come un’acqua che ha finito il gradino. La donna cieca modulò la nenia in una cadenza che somigliava a un congedo; lo Scriba chiuse il libro muto; il nano batté due volte il bastoncino sul banco per dire che, per adesso, il regno del dolce era finito.

Darin fece un passo. Poi un altro. Il suo stivale affondò in una buca piena d’acqua e ne uscì con un suono da otto. A ogni passo, la piazza perdeva un poco del suo dominio e il vicolo guadagnava una parte di lui. Sentiva già l’odore diverso: meno collettivo, più personale. Il vicolo aveva il proprio carattere, come una persona con un difetto curioso. La luce sul muro si sminuzzava in scaglie bianche; una camicia stesa pendeva come un pensiero ripensato; una porta socchiusa mostrava due dita di un piede che dondolavano al ritmo di una canzone interiore.

Si voltò un istante: la piazza era intera, enorme, impassibile, e lo guardava con i suoi mille occhi. Gli sembrò che la statua mutilata gli facesse un cenno con la spada spezzata. Forse era solo il vento. Forse era il feudo che lo salutava e lo spingeva più dentro, verso dove gli odori diventano storie strette e i passi diventano segreti.

E così entrò.

Il vicolo accolse Darin con un respiro umido. Era più che un odore: un abbraccio di muffa, legna marcia e fumo vecchio, che gli si attaccò subito alle narici e alle ciglia. La luce, che nella piazza si spandeva libera pur tra corvi e fumi, lì dentro diventava lama sottile, spezzata dai tetti che quasi si toccavano. Ogni passo affondava in una terra che non era fango né pietra, ma un miscuglio di entrambi, come se il vicolo fosse la gola di una bestia che deglutiva lentamente.

Le case si stringevano una contro l’altra, curve e storte. Alcune parevano piegarsi per ascoltare, altre arretrare per timore. I muri colavano acqua verde da grondaie rotte; le finestre erano fessure, protette da assi inchiodate o da grate arrugginite. Dietro quelle grate si intravedevano occhi: bambini che fissavano senza curiosità, vecchi che sbattevano le palpebre come gufi annoiati, donne che parlavano senza aprire la bocca.

Un gatto grigio, con un occhio velato e la coda spezzata, balzò da un davanzale all’altro. Si fermò sopra Darin, lo guardò con lentezza, e sputò un miagolio roco che pareva una bestemmia. Poi sparì.

Il primo suono distinto fu un martellare regolare, più sottile di quello della fucina di Ralf. Era lo stagnino. La sua bottega si apriva direttamente sul vicolo: un antro basso, pieno di pentole che pendevano dal soffitto come frutti di ferro. L’uomo, curvo, con occhiali rotondi e incrinati, colpiva piano una brocca con un martello piccolo. «Parli troppo» disse al metallo, e ogni colpo era una sillaba. Darin si fermò a guardarlo: pareva un medico che discute col paziente. Sul tavolo, altre stoviglie attendevano, come malati in fila. Una pentola bucata gemeva a ogni tocco, una bacinella si gonfiava sotto il martello come una guancia che trattiene uno schiaffo.

Lo stagnino alzò gli occhi e vide Darin. Non disse nulla, ma il suo sguardo fu un giudizio: un ragazzo che osserva invece di lavorare. Poi tornò al suo martello, che intanto aveva trovato una nuova parola: «Taci… taci… taci.»

Più avanti, il vicolo cambiò voce. L’odore acre e dolciastro delle pelli conciate si fece padrone. La conceria era una ferita aperta, con vasche colme di liquidi scuri dove galleggiavano brandelli di cuoio. Gli uomini che vi lavoravano avevano mani nere, unghie spaccate, occhi rossi come fuochi di brace. Non parlavano: grugnivano. Uno sollevò una pelle e la stese su una trave, e dal gesto uscì un suono come di carne strappata. L’odore fece tossire Darin, che si affrettò a passare oltre.

Un ragazzino gli corse accanto, ridendo con la bocca larga. Portava un secchio mezzo pieno d’acqua puzzolente. Gli schizzi caddero sulle gambe del ragazzo, lasciando macchie scure. «Buongiorno!» urlò, e scomparve dentro la conceria.

Un’altra bottega sbucò con improvvisa delicatezza: quella del cestaio. Il vicolo ne era pieno: cesti grandi come barche, piccoli come cappelli, intrecciati di vimini chiari. L’uomo, alto e ossuto, lavorava con dita nodose e veloci. Ogni gesto era un nodo, ogni nodo una ruga che si aggiungeva al suo volto. Parlava sottovoce al vimini: «Piega… piega… reggi… non cedere…» Sembrava che stesse educando bambini riottosi.

Darin si fermò un istante. Il cestaio non lo guardò, ma una delle ceste lo fece: aveva la forma di un volto, con due manici come orecchie e un’ansa che pareva un sorriso. Il ragazzo abbassò lo sguardo e riprese a camminare.

Il vicolo si fece più stretto. Le case, gonfie di muffa, stringevano le spalle. Sopra, panni stesi a gocciolare cadevano come tende improvvisate, filtrando la luce in colori sporchi: rosso marcio, giallo slavato, verde fangoso. L’aria divenne più calda, come se respirasse di suo.

Una voce cantava. Era roca, spezzata, ma intonata: proveniva da un uomo seduto su una cassa, con una gamba sola. Accanto a lui, un bastone nodoso. Davanti, una ciotola con due monete di rame. La sua canzone parlava di un fiume che divorava villaggi, di un signore che rideva mentre il mondo affogava. Darin non capiva tutte le parole, ma la melodia gli rimase addosso. Qualcuno gli lanciò una crosta di pane; l’uomo la prese con dignità, come fosse una moneta d’argento. Continuò a cantare.

Dietro di lui, tre bambini saltavano una corda fatta di viscere secche, ridendo con voci acute. Ogni salto era uno strappo all’aria, e la corda emanava un odore che faceva voltare lo stomaco. Ma i bambini ridevano più forte proprio per quello.

Il vicolo si biforcava. A sinistra, saliva verso le mura. A destra, scendeva verso l’ombra più scura. Darin prese a destra, attratto dall’odore di vino rancido. Dopo pochi passi, si trovò davanti a una porta mezza aperta: da dentro veniva un rumore di bicchieri e una risata spezzata. Una taverna, piccola come una cella. Dentro, uomini già ubriachi nonostante l’alba. Uno di loro, con il volto coperto di cicatrici, sollevò il boccale e urlò: «Al feudo! Che ci tiene vivi e ci seppellirà!» Gli altri risero, e uno rovesciò il vino sul tavolo. Una donna con i capelli unti corse a raccoglierlo in un secchio, lo rimise nei boccali, e lo rivendette come nuovo.

Darin non entrò. Ma guardò a lungo quel gesto: raccogliere lo spreco per farlo di nuovo merce. Gli parve la definizione stessa del feudo.

Il vicolo proseguiva, sempre più stretto. Sopra di lui, i tetti quasi si baciavano. L’aria era densa, i rumori confusi. Un vecchio narratore sedeva su uno sgabello, con una barba gialla e lunga. Raccontava a nessuno di un re che aveva perso la corona perché si era addormentato. La sua voce era monotona, ipnotica. «Dormì… dormì… dormì» ripeteva, e ogni volta sembrava che il vicolo stesso chiudesse gli occhi.

Darin passò oltre, ma la parola gli rimase addosso. Dormì. Non sapeva se fosse un avvertimento o un destino.

Il vicolo sbucava su un piccolo slargo, un ventre nascosto del feudo. Qui stavano i rigattieri: tavoli coperti di ossa, ferri, pezzi di statue, ruote spezzate, strumenti senza nome. Un uomo, con un occhio di vetro che brillava innaturalmente, sollevò un teschio di cavallo. «Parla!» disse, e lo agitò davanti a un cliente invisibile. «Parla, e dimmi i segreti!» Il teschio tacque, e l’uomo lo rimise giù, deluso. Poi notò Darin e gli sorrise con il dente unico rimasto: «Tu vuoi un segreto? Basta ascoltare il vento nelle torri.»

Il ragazzo non rispose, ma l’eco di quelle parole si piantò in lui.

Lo slargo dei rigattieri ribolliva come una pentola dimenticata sul fuoco. Ogni banco era una discarica trasformata in miracolo provvisorio. Pezzi di armature arrugginite pendevano come ossa di giganti, catini bucati diventavano tamburi improvvisati, lampade senza vetro erano offerte come reliquie di luce.

Un uomo magrissimo, con il naso a becco e le mani lunghe come ragni, vendeva corde. Ogni corda era annodata in un modo diverso: a cappio, a spirale, a nodo scorsoio. Non diceva il prezzo, non diceva l’uso: stava lì, con gli occhi lucidi, e sorrideva. «La corda sa già cosa fare» sussurrava, e i compratori annuivano, forse senza capire. Una donna prese un laccio corto e lo infilò nella borsa; un ragazzo comprò un pezzo lungo come un serpente e lo arrotolò al braccio, come se fosse un talismano.

Vicino, un fabbro troppo vecchio per lavorare ancora, martellava un ferro già piegato cento volte. Il suo colpo era debole, ma regolare. «Sto insegnando al ferro a ricordare» diceva a chi si fermava. «Un giorno non serviranno più uomini, e il ferro si piegherà da solo.» La sua bocca tremava, e un filo di saliva gli cadeva sul mento, ma gli occhi brillavano di convinzione.

Darin passava tra i banchi come un’ombra. Non toccava nulla, ma osservava tutto. Gli oggetti parlavano, ciascuno con una lingua diversa: il secchio bucato gemeva, il teschio rideva muto, la corda sibilava, il ferro ripeteva colpi lontani. Ogni cosa nel vicolo sembrava avere un’anima imprigionata, e il ragazzo provava la sensazione di camminare in un cimitero che aveva deciso di farsi mercato.

Un mendicante gli tirò la manica. Era piccolo e ossuto, con i capelli bianchi e la pelle macchiata. «Hai visto il Signore?» gli chiese. Darin scosse la testa. «Allora stai attento» disse l’uomo, e rise con una voce sottile, che si perse subito tra le voci degli altri.

Più avanti, il vicolo tornava a stringersi, e l’aria si fece ancora più pesante. Le case, vicinissime, lasciavano cadere acqua dalle grondaie, gocce scure che cadevano ritmiche come un tamburo. Una porta si aprì e ne uscì una donna con un secchio pieno di bucato. L’acqua gocciolava lungo il bordo, lasciando scie bianche sul selciato. Il suo volto era teso, le mani rosse e screpolate. Non guardò Darin, né nessun altro. Posò il secchio, si chinò, e iniziò a strofinare un panno con la forza di chi vuole cancellare il mondo intero da un tessuto.

Poco dopo, un uomo uscì da un portone e iniziò a urlare contro il nulla. Le sue parole erano incomprensibili, un torrente di suoni strozzati. Puntava il dito contro il cielo, poi contro le mura, poi contro se stesso. La gente non lo ascoltava: passava oltre, come se fosse un lampione che si accende e si spegne da solo. Darin rimase un istante a fissarlo, poi lo superò.

Il vicolo finiva in un cortile stretto, dove i muri erano anneriti di fumo. Qui vivevano i carbonai. Uomini neri dalla testa ai piedi, con occhi bianchi che spiccavano come fari. Caricavano sacchi pieni di carbone sulle spalle e li caricavano su carretti. Ogni loro movimento era accompagnato da nuvole di polvere nera che annerivano ancora di più le pietre. Uno tossì forte, sputò un grumo scuro, e sorrise come se avesse partorito.

Un bambino carbonaro, più piccolo di Darin, gli si avvicinò con la faccia interamente nera tranne due occhi grandi. «Vuoi giocare?» chiese, mostrando una pallina fatta di carbone pressato. Darin sorrise ma non rispose. Il bambino lo guardò con curiosità e corse via, lasciando una scia di impronte nere sulle pietre bagnate.

Dal cortile partiva un altro vicolo che portava verso le mura. Era più largo, ma più buio: i tetti si incontravano sopra la testa, lasciando solo fessure di cielo. L’aria era piena di eco: ogni passo risuonava come se cento piedi lo ripetessero.

Lungo il muro, alcune porte basse portavano a cantine. Da una di esse usciva odore di vino. Un uomo, già ubriaco, stava sdraiato a metà fuori dalla soglia. Teneva in mano un boccale vuoto e rideva da solo, mostrando denti rotti. Ogni tanto cantava, con voce roca: «Il feudo è vino, il vino è feudo.» Nessuno lo ascoltava, ma il suo ritornello rimaneva nell’aria come una macchia.

Poco più avanti, un gruppo di ragazzi giocava con un topo morto. Lo spingevano avanti con dei bastoni, ridendo e gridando. Il topo rimbalzava sulle pietre, lasciando una scia scura. Una donna li scacciò con urla acute, ma appena lei si voltò, i ragazzi tornarono, più veloci e più crudeli.

Le mura ora erano vicine, si sentivano respirare. Erano pietre enormi, massicce, ma gonfie di muschio e licheni. Le crepe correvano in tutte le direzioni, come vene scoperte. Alcune pietre erano spaccate, altre sembravano sporgere come ossa rotte. L’umidità colava lungo i muri, formando rigagnoli neri.

Darin si fermò. Alzò lo sguardo: sopra, le torri storte puntavano il cielo, gonfie come dita artritiche. Le guardie camminavano lente, figure immobili che parevano parte del muro. I corvi volavano in cerchi larghi, lanciando gracchi che rimbombavano tra le pietre.

La porta più vicina era ancora chiusa. Le assi di quercia nere e screpolate erano trattenute da ferri arrugginiti. Sembrava un torace che trattiene il respiro. Davanti, alcuni uomini aspettavano di entrare: viandanti infangati, con sacchi sulle spalle e carri mezzi vuoti. Una donna teneva per mano un bambino, che guardava le mura con occhi enormi.

Il vento che arrivava dalla campagna portava odore di fieno e di letame. L’aria del vicolo, invece, odorava di fumo e di muffa. I due respiri si incontravano davanti alla porta, mescolandosi come due lingue che non vogliono parlarsi.

Darin rimase immobile, tra le viscere del vicolo e il petto delle mura. Aveva attraversato il corpo interno del feudo, i suoi odori, i suoi rumori, le sue figure deformi. Ora era davanti alla pelle esterna, quella che separava dentro e fuori.

Le mura non erano solo difesa. Erano prigione, erano ossatura, erano il limite che decideva cosa apparteneva al feudo e cosa ne restava fuori. Guardando quelle pietre gonfie, Darin sentì il peso della catena invisibile che lo teneva legato.

Dietro di lui, i vicoli respiravano ancora. Davanti, le porte tacevano. In quell’attimo sospeso, si rese conto che non c’era scelta: ogni passo, dentro o fuori, era già stato deciso.

Le mura non erano pareti: erano la pelle viva e ulcerata del feudo. Darin, con la testa sollevata, le sentiva incombere sopra di lui come montagne malate. Ogni pietra era diversa: alcune lisce e spente, altre rigonfie, altre spaccate da crepe che correvano come vene sotto pelle. Il muschio ne aveva colonizzato ampie zone, disegnando arabeschi verdi che parevano tatuaggi lasciati da mani invisibili. In certi punti le pietre erano scolorite, come ustionate da un fuoco che risaliva ai tempi di leggende. In altri erano gonfie di licheni gialli, e sudavano acqua che scendeva in rigagnoli neri.

Sopra quelle pareti scabre si alzavano le torri, storte e sgraziate, con proporzioni da incubo. Non c’era simmetria, non c’era ordine: alcune erano alte e filiformi come dita scheletriche, altre massicce e gonfie come cisti pietrose. I merli, corrosi, sembravano denti rovinati, e i corvi che vi si accalcavano li facevano sembrare gengive nere, pullulanti di vita parassita.

Ogni volta che i corvi gracchiavano in coro, il suono scendeva sulle case come un sipario oscuro. La gente alzava lo sguardo, ma non con meraviglia: con rassegnazione. Erano abituati a quel concerto di morte quotidiana, lo conoscevano come si conosce il battito del proprio cuore.

Le guardie camminavano sopra i camminamenti, figure lente, immerse nella stessa monotonia da cui erano nate. Armature arrugginite, elmi ammaccati, lance scheggiate. Ogni passo era un colpo sul legno che tremava; ogni sputo cadeva giù come pioggia sporca. Alcune guardie sembravano più addormentate che vigili; altre, con occhi gonfi, fissavano il vuoto con la pazienza di statue abbandonate. Una, particolarmente vecchia, si appoggiava alla lancia come a un bastone, e ogni tanto lasciava che la testa le cadesse sul petto, come se fosse pronta a dormire per sempre.

La porta nord si presentava come una gola spalancata e malata. Le assi di quercia erano nere e screpolate, trattenute da bande di ferro che parevano cuciture di un corpo troppo cresciuto. I cardini gemevano a ogni minimo movimento, e la sensazione era quella di un torace che si sforza di inspirare. L’odore era un miscuglio di legno vecchio, ferro arrugginito e urina.

Davanti a quell’arco, la vita ribolliva. Viandanti arrivavano dalla campagna: contadini con sacchi di grano, carrettieri con ruote infangate, donne curve che trascinavano ceste di verdure, bambini che piangevano o ridevano senza motivo. Alcuni cercavano di entrare, altri di uscire. Il flusso si incontrava sotto le mura, come due fiumi che si scontrano in un gorgo.

Un mercante con la barba biforcuta discuteva con la guardia, mostrando un pezzo di pergamena unto. La guardia lo fissava con occhi vuoti, come se non sapesse leggere né volesse capire. Alla fine alzò una mano, chiese una moneta e lasciò passare. Il mercante borbottò, ma entrò. Subito dopo, un contadino cercò di passare senza pagare; la lancia lo fermò al petto. Ci fu un attimo di silenzio, poi il contadino allungò una cipolla, e la guardia annuì. La cipolla fu infilata nella borsa di cuoio appesa al fianco, insieme ad altre verdure, pezzi di pane, un mezzo pollo.

Accanto alla porta, i mendicanti si accampavano come zecche. Alcuni stesi per terra, altri appoggiati ai muri. Una donna con la pelle mangiata dal vaiolo mostrava una mano tremante, senza mai guardare in faccia chi passava. Un uomo cieco, con due orbite bianche, scuoteva un piatto di latta. Un vecchio senza denti offriva in cambio di una moneta la sua benedizione, biascicando parole rotte. I bambini randagi giravano tra loro, rubando ai mendicanti stessi le poche monete raccolte. Le guardie, vedendo, ridevano, senza intervenire.

Uno di quei mendicanti, con i capelli arruffati e gli occhi febbrili, si alzò improvvisamente e cominciò a gridare: «Fuori! Fuori! Lì c’è il respiro vero!» Alcuni lo guardarono, altri lo ignorarono. Una guardia gli tirò un calcio nello stomaco e lo lasciò piegato a terra, mentre i corvi gracchiavano come in applauso.

La porta sud non era diversa. Le sue assi, però, portavano incisi nomi e segni lasciati da anni di viaggiatori. Croci, iniziali, figure rozze di animali. Ogni graffio era un ricordo, ma nessuno sapeva più di chi. Davanti a essa, un mercante forestiero cercava di contrattare il pedaggio con parole storte. Parlava una lingua incomprensibile; la guardia rispondeva scuotendo la testa. Alla fine, il forestiero tirò fuori un coltello intarsiato, e lo consegnò. La guardia sorrise: il coltello finì sotto il mantello, e l’uomo passò.

Darin osservava tutto questo con un misto di curiosità e inquietudine. Gli sembrava che le porte non fossero solo passaggi, ma bocche che decidevano chi poteva entrare e chi doveva restare fuori. Ogni uomo che passava era un boccone che il feudo masticava: alcuni digeriti, altri rigettati.

Sotto la porta ovest, due carrettieri litigavano. Le loro ruote si erano incastrate, e ciascuno accusava l’altro. Urlavano, si spingevano, e alla fine si presero a pugni. La folla si fermò a guardare. Una guardia, annoiata, scese e colpì entrambi con il bastone, facendoli cadere nel fango. Poi li lasciò lì, ridendo, e tornò al suo posto.

Un pellegrino passò subito dopo. Indossava un cappello largo e portava un bastone intagliato con simboli. Si fermò davanti alla porta, fece il segno della croce, e sussurrò una preghiera. I mendicanti, vedendolo, gli si fecero intorno, e lui distribuì a ciascuno una moneta. Poi entrò, scomparendo nel ventre del feudo.

Darin seguì il suo passaggio con lo sguardo. Non era la moneta a colpirlo, ma la calma di quell’uomo. Sembrava che le mura non lo toccassero, come se camminasse dentro un sogno.

Più in là, vicino alla porta est, un cane randagio giaceva morto. Il corpo era già gonfio, e i corvi lo beccavano senza pudore. La gente passava accanto come se fosse un sacco vuoto. Un bambino si fermò, lo guardò a lungo, e poi gli posò accanto un fiore giallo strappato da un prato. Nessuno disse nulla, ma per un attimo il silenzio si fece più pesante.

Darin vide la scena e sentì un nodo in gola. Non capiva se fosse per il cane, per il fiore, o per la naturalezza con cui la gente ignorava entrambe le cose.

Sulle mura, intanto, il sole cominciava a battere. Le pietre si coloravano di giallo sporco, i licheni brillavano come oro stanco. I corvi si muovevano in cerchi più larghi, e il loro gracchiare diventava più acuto. Le guardie, sudando sotto gli elmi, si passavano otri d’acqua, bevendo a grandi sorsi e sputando sul selciato.

Il feudo respirava più forte. Le porte si aprivano e chiudevano, i viandanti entravano e uscivano, i mendicanti gemevano, i corvi urlavano. Darin rimase lì, in mezzo, con la sensazione di essere parte di quel respiro, ma anche estraneo.

Il vento che arrivava dalla campagna portava odore di terra bagnata, e per un attimo parve voler lavare via l’aria greve dei vicoli. Ma appena passava sotto le arcate, il vento si corrompeva: prendeva a sé il fetore di muffa, vino rancido e carne sudata, e ne usciva più pesante di prima. Le porte del feudo non lasciavano entrare nulla senza trasformarlo.

Alla porta nord, un gruppo di forestieri attendeva di passare. Erano tre uomini alti, con tuniche di lana grezza e capelli intrecciati. Uno portava al collo una collana di ossa di animale, l’altro teneva al guinzaglio un maiale vivo, il terzo aveva una cicatrice che gli correva dall’orecchio alla bocca, deformandogli il sorriso in una maschera perenne. La guardia li fermò con il palmo alzato. L’uomo del maiale protestò in una lingua incomprensibile; la guardia si limitò a picchiare il ferro della lancia contro il selciato. Alla fine, il forestiero offrì una brocca di latte acido. La guardia la prese e li lasciò entrare, con un ghigno che diceva più delle parole: qui ogni ingresso era una transazione, mai un diritto.

Poco distante, una mendicante partorì proprio sotto l’arco. Nessuno la aiutò. Il suo grido si mescolò con il cigolio dei cardini, e per un attimo si confusero, come se la porta stessa avesse dato alla luce il pargolo. Alla fine il bambino nacque, piangendo come piange il ferro arrugginito sotto la pioggia. Un vecchio raccolse il neonato e lo mostrò al cielo, sorridendo senza denti. La madre, esausta, si addormentò sul selciato. Il bambino fu avvolto in un panno lurido, e già le mosche gli giravano intorno. Darin, che guardava la scena, sentì un gelo scendergli lungo la schiena: lì, davanti alle mura, la vita e la morte si confondevano fino a sembrare la stessa cosa.

La porta est era sorvegliata da due guardie più giovani, che si divertivano a tormentare i viandanti. Uno di loro costrinse un contadino a fare tre giri di corsa attorno al carro prima di lasciarlo entrare; l’altro prese a calci un sacco di farina, facendolo esplodere e riducendo il contadino a una statua bianca. Le risate rimbombarono sotto l’arco. Il contadino non disse nulla, abbassò la testa e raccolse quello che poteva. Quando passò oltre, Darin vide il suo sguardo: era vuoto, ma non per rassegnazione. Vuoto come un pozzo senza fondo.

Un gruppo di bambini, intanto, giocava proprio contro il portone chiuso. Lo colpivano con bastoni, urlando come se volessero abbatterlo. Ogni colpo rimbombava come un tuono smorzato. Una guardia, annoiata, li scacciò con un gesto lento, ma i bambini tornarono poco dopo, ridendo più forte. La porta non cedette, ma l’eco dei loro colpi rimase a lungo nell’aria, come un battito che non apparteneva a nessuno.

Alla porta sud, un mendicante cieco raccontava storie in cambio di pane. Parlava di battaglie mai viste, di signori mai nati, di terre oltre il fiume dove il sole non tramontava mai. Ogni parola era un frammento stanco, ma la gente si fermava lo stesso, se non altro per sentire una voce diversa dal gracchiare dei corvi. Un viandante gli gettò un pezzo di formaggio. Lui lo raccolse e disse: «Ecco la prova che il sole è ancora vivo.» Nessuno rise.

Vicino a lui, due prostitute attendevano clienti. Una si passava il rossetto sulle labbra con un dito sporco, l’altra si lisciava i capelli unti. Le guardie le ignoravano: erano parte del paesaggio, come le pietre e i corvi. Un ragazzino le guardava da lontano con occhi enormi, e Darin notò il rossore che gli saliva al volto. Non era desiderio, non ancora: era il peso confuso del mistero.

Sotto la porta ovest, i carrettieri continuavano a litigare. Questa volta erano due fratelli, e nessuna guardia voleva intervenire. Si picchiavano con la furia di chi non ha altro modo di comunicare. Uno cadde nel fango, l’altro lo colpì con il ginocchio. Intorno, la folla guardava senza partecipare, come se fosse uno spettacolo di mercato. Alla fine, stanchi, i fratelli si rialzarono, si sputarono addosso e, senza dire altro, ripresero a spingere i carri. Era il modo del feudo di risolvere i conflitti: non con soluzioni, ma con esaurimento.

Darin assorbì tutto questo in silenzio. Ogni porta gli sembrava un teatro a sé: la nord con i forestieri e i pedaggi corrotti; la sud con i mendicanti e le nascite improvvise; l’est con i giochi crudeli delle guardie; l’ovest con le liti senza fine. Tutte insieme, però, erano il feudo stesso: quattro bocche che mangiavano, sputavano, ridevano, urlavano.

Il sole ormai batteva pieno sulle mura. Le pietre scure brillavano di riflessi sporchi, e le torri si stagliavano contro il cielo come dita sporche di sangue. I corvi volavano e il loro gracchiare si mescolava al rumore dei carri, alle urla dei mendicanti, ai pianti dei bambini, alle bestemmie dei carrettieri. Il feudo respirava con forza, e ogni respiro scuoteva Darin come un colpo invisibile.

Si accorse che i suoi piedi erano rimasti fermi a lungo. Il fango li aveva quasi inghiottiti. Quando li sollevò, sentirono il suono di un risucchio, come se la terra non volesse lasciarlo andare.

Allora alzò lo sguardo verso l’alto. Oltre le mura, oltre le torri, oltre i corvi, c’era il castello. Non lo vedeva ancora intero, ma intravedeva le sue sagome nere che dominavano il tutto. E capì che quello era il cuore vero, non la piazza, non i vicoli, non le porte. Il castello era il cervello di quella creatura, il luogo da cui venivano le decisioni che schiacciavano o permettevano, ridevano o uccidevano.

Il feudo lo aveva condotto lì, passo dopo passo: dalla fucina alla piazza, dalla piazza ai vicoli, dai vicoli alle mura. E ora, inevitabile, al castello.

Darin inspirò l’aria pesante, fece un passo indietro e poi uno avanti. Gli occhi fissi alle torri più alte, cominciò a camminare.