Capitolo III — La casa

Il giorno declinava, e la fucina lentamente perdeva la sua furia. Ralf mise via gli attrezzi senza una parola, e il ragazzo, ancora col ronzio dei colpi nelle braccia, si sciacquò il viso con acqua tiepida che sapeva di ferro e cenere. Uscì allora nella strada stretta, dove il sole calava radente e gli ultimi raggi trasformavano la polvere in un pulviscolo dorato.
Si avviò verso casa, con le mani ancora indolenzite e l’odore della fucina attaccato alla pelle. Ogni passo lo allontanava dal respiro del fuoco e lo avvicinava a quello della sua famiglia, a un’altra forma di calore che non bruciava ma avvolgeva.
La casa di Darin era una scatola di legno e pietra, stretta fra due vicoli che si stringevano come gole. I muri esterni portavano il colore della pioggia: chiazzati di muschio verde, screpolati dove il sole aveva battuto per anni, anneriti dal fumo che saliva dal camino. La porta era spessa, fatta di assi irregolari tenute insieme da chiodi rugosi che parevano artigli. Ogni volta che la si apriva, gemeva come un vecchio che protesta contro il mattino.
Dentro, la luce entrava con fatica. Le finestre erano due occhi piccoli, incrostati di polvere e di vetri storti. Il pavimento era di terra battuta, coperta qua e là da stuoie che avevano perso il disegno originale: restavano solo linee consumate, intrecci che si sbriciolavano sotto i piedi.
Il camino, grande come una bocca spalancata, dominava l’unica stanza che faceva da cucina e da sala. Sopra la mensola annerita dal fumo c’erano pochi oggetti: una ciotola scheggiata, un coltello con il manico consunto, una croce di legno scolpita dal nonno di Darin e mai spolverata. Ogni cosa sembrava avere un’anima propria, e ciascuna custodiva un pezzo di storia silenziosa.
Quando si stava tutti insieme lì dentro, la stanza pareva più piccola. Il padre occupava il suo sgabello con la fermezza di una roccia; la madre cuciva con dita sottili che non si fermavano mai; la sorella, quando era in visita da corte, portava odori estranei: profumi lievi, polveri dolci che cozzavano contro l’odore forte della legna bruciata. Darin osservava ogni dettaglio, e spesso gli pareva che la casa respirasse insieme a loro, stringendosi e dilatandosi secondo il ritmo delle parole o dei silenzi.
La casa di Darin non era grande, ma ogni suo angolo possedeva un carattere proprio, come se avesse maturato negli anni un umore distinto. Le assi del soffitto gemevano a ogni folata di vento, rispondendo con gemiti lunghi e bassi, quasi lamenti. Nei giorni di pioggia, l’acqua filtrava da una fessura e cadeva goccia a goccia in un secchio posato sotto, con una regolarità che scandiva le ore più della campana del villaggio.
Gli oggetti erano pochi, e proprio per questo apparivano carichi di significato. Una brocca di terracotta, scheggiata su un lato, si ostinava a restare in uso: la madre non voleva disfarsene, come se quella crepa fosse un legame con qualcosa che andava mantenuto. Un vecchio mestolo di legno, scurito dal tempo, pendeva accanto al camino: aveva nutrito generazioni, e Darin lo guardava con rispetto muto, come si guarda un vecchio cavaliere ormai stanco ma ancora in piedi.
Nella stanza vi era anche un baule, chiuso con un lucchetto arrugginito che nessuno apriva mai. Il legno portava segni di viaggi che Darin non aveva mai fatto: graffi profondi, macchie scure, l’impronta consumata di un ferro da cavallo. Si diceva che appartenesse al nonno, ma nessuno ne parlava. Per Darin era come un animale addormentato, che respirava piano nell’angolo, custodendo segreti che non osava nemmeno immaginare.
La notte, la casa cambiava pelle. Le ombre si stiravano sui muri come esseri viventi, e gli oggetti si trasformavano. La croce sopra il camino diventava uno scheletro stilizzato che sembrava ammonire, il baule pareva gonfiarsi come un petto che trattiene il fiato, e le sedie diventavano figure sottili e contorte, pronte a muoversi se solo avessero avuto coraggio. Darin, da bambino, spesso aveva avuto paura di quelle metamorfosi silenziose; crescendo, aveva imparato ad amarle, perché gli ricordavano che nulla è mai soltanto ciò che appare.
Al mattino, invece, la casa aveva un respiro diverso. L’odore del pane che la madre cuoceva riempiva l’aria, mescolandosi al fumo fresco del camino acceso. I raggi del sole, entrando storti dalle finestre, si fermavano sulle particelle di polvere sospese, facendole brillare come un piccolo firmamento. Darin, più di una volta, si era perso a guardarli: granelli minuscoli che danzavano lenti, muovendosi come stelle trascinate da correnti invisibili.
La casa era un guscio, fragile e resistente insieme. Non aveva nulla di grandioso, eppure per Darin era teatro di tutto: il luogo delle discussioni, dei silenzi, dei pasti condivisi, dei ritorni stanchi e delle partenze brevi. E quando la sera si raccoglievano intorno al fuoco, Darin sentiva che, nonostante i muri storti e le crepe, quella era una fortezza: non costruita di pietra, ma di gesti, di abitudini, di sguardi.
La mattina la casa respirava piano. La madre muoveva tra stoviglie e panni con la precisione di sempre, e l’odore del pane fresco si mescolava al fumo ancora vivo del camino. La sorella non c’era: a corte, come spesso accadeva, lontana dietro mura che non appartenevano alla famiglia. Restavano loro tre, legati a quella stanza come a un cuore pulsante.
Il padre finì di allacciarsi la giubba, prese la zappa e se la caricò sulla spalla. Non disse nulla: aprì la porta con il solito cigolio, lasciando entrare una lama di luce che fece brillare la polvere sospesa nell’aria. Darin lo seguì con lo sguardo mentre usciva.
Vedeva la sua schiena larga e curva insieme, l’andatura lenta ma sicura, i passi che già sembravano dialogare con la terra prima ancora di raggiungerla. Ogni mattina era così: la casa si svuotava e i campi lo reclamavano. E in quel breve momento di passaggio, Darin sentiva che la vita del padre si allungava oltre la soglia, verso il mondo silenzioso delle zolle e delle stagioni.
E lì, davanti alla porta ancora aperta, si apriva per lui il ricordo e l’immagine del padre nei campi.
Il sole, quando saliva oltre le mura, trovava l’uomo già piegato sulla terra. Non era un piegarsi di stanchezza, ma di intesa: come se il suo corpo fosse stato modellato da anni di dialogo silenzioso con la zolla. Ogni mattina ripeteva lo stesso rito: tastava la terra con le dita nodose, ne sbriciolava un grumo tra pollice e indice, lo portava vicino agli occhi, quasi fosse un frammento d’oro da valutare. Poi annuiva o scuoteva il capo, con un’espressione che non lasciava spazio a dubbi. Non c’era poesia, non c’era mistica: c’era la certezza di chi vive del respiro del suolo.
La schiena, larga ma già incurvata, pareva un arco teso verso la terra stessa. Il braccio che sollevava la zappa aveva la forza di una radice che spinge fuori una pietra. I calli sulle mani non erano protuberanze, ma segni permanenti, come se la pelle avesse deciso di diventare legno per sopportare meglio lo sforzo. Ogni colpo della lama nel terreno era un atto sacro e violento insieme: la terra gemeva e respirava, e lui continuava, regolare, senza fretta e senza sosta.
L’aria dei campi, al mattino, aveva un odore che nessuna piazza poteva imitare. Era un misto di rugiada, fumo lontano, sterco animale, resina che colava dai rami, e sopra tutto la fragranza della terra bagnata. Quando il padre camminava lungo i solchi, quella fragranza lo avvolgeva, e Darin, guardandolo da lontano, aveva l’impressione che non fosse un uomo a muoversi nei campi, ma i campi stessi a spostarsi con lui.
C’erano momenti in cui l’uomo si fermava, appoggiava la zappa al fianco e si voltava verso l’orizzonte. Non cercava ispirazioni celesti, ma misurava le nubi, seguiva il volo degli uccelli, ascoltava la direzione del vento. Era la sua scienza. Sapeva, da un cambiamento quasi impercettibile nella luce, se la pioggia sarebbe caduta prima di sera o se il sole avrebbe continuato a bruciare fino al tramonto. Una volta, Darin gli aveva chiesto come facesse a saperlo. Il padre aveva risposto senza distogliere lo sguardo:
— Non sono io che so. È la terra che parla. Bisogna solo starla a sentire.
Ricordi si intrecciavano ai gesti. Da bambino, Darin aveva accompagnato il padre in un giorno di raccolto. La schiena gli doleva, le mani non reggevano bene il peso della falce. Lui si lamentava, ansimando, e il padre lo aveva osservato in silenzio. Poi, con calma, gli aveva preso la mano, l’aveva guidata, e insieme avevano tagliato un ciuffo d’erba alto, lasciandolo cadere con dolcezza.
— Non serve forza — aveva detto. — Serve misura.
Era stata la stessa lezione che Ralf, anni dopo, gli avrebbe ripetuto con il ferro. Ma quella volta la terra era stata la maestra.
I campi non erano mai muti. Di giorno, gracchiavano i corvi, stridevano le cicale, nitrivano i cavalli lontani. Di sera, rane e grilli alzavano cori infiniti, un mormorio che pareva non dover finire mai. Il padre si muoveva dentro questo concerto con la stessa naturalezza di una nota già scritta nello spartito. Quando parlava — raramente — la sua voce era bassa, roca, come una pietra trascinata sul legno. Ma ogni parola aveva il peso di una stagione.
Una volta, mentre il cielo si rabbuiava e i tuoni cominciavano a muggire, Darin lo vide continuare a scavare.
— Padre, viene il temporale! — gridò.
L’uomo si raddrizzò, guardò le nuvole nere e annuì.
— La terra ha sete. — rispose. — Non importa se l’acqua arriva in furia o in carezza. La prenderà lo stesso.
E continuò a lavorare finché le prime gocce non gli colpirono le spalle. Non correva, non si affrettava. Sembrava un uomo che conosceva bene l’antica alleanza: la pioggia punisce, ma disseta.
Quando tornava dai campi, il suo corpo era una mappa di fatiche. I piedi affondati nel fango, le mani coperte di polvere, la fronte segnata dal sole. Eppure, dentro quegli occhi scuri, c’era una calma che Darin non capiva. Non era rassegnazione, non era stanchezza. Era la calma di chi accetta di essere parte di un ciclo che non ha inizio né fine: semina, raccolto, inverno, di nuovo semina.
Darin lo guardava con un misto di ammirazione e di inquietudine. Ammirava quella certezza, quella fedeltà al campo, ma dentro di sé temeva di non saperla sostenere. Ogni volta che lo vedeva tastare la terra con le mani, provava la sensazione che il padre e il suolo fossero la stessa cosa. E lui, Darin, si chiedeva: io a cosa appartengo?
Una volta, durante la mietitura, Darin lo aveva visto alzare un covone sulle spalle. Il gesto era lento, ma non esitante. L’uomo si piegò, lo caricò, si raddrizzò, e sembrava che non portasse un peso, ma un fratello ferito. Darin rimase colpito da quella dignità silenziosa. Nessun lamento, nessun gesto teatrale: solo il ritmo, solo il dovere.
Eppure, c’erano momenti in cui anche il padre lasciava trapelare un’ombra. Soprattutto la sera, quando tornava tardi e si sedeva sullo sgabello senza toccare cibo. Restava lì, con gli occhi fissi nel fuoco, il corpo immobile, e Darin sentiva che in quei momenti la terra gli chiedeva un prezzo più alto. Non parole, non gesti, ma pezzi di vita che non tornavano.
Per Darin, l’immagine del padre nei campi era dunque doppia. Da una parte, la forza incrollabile, la certezza, l’appartenenza a un ritmo eterno. Dall’altra, il silenzio cupo, il peso che non si dice, l’ombra che nessuno osa nominare.
E mentre lo osservava, giorno dopo giorno, Darin imparava due cose: che la fedeltà alla terra dà radici, e che quelle radici, a volte, stringono come catene.
Era allora che pensava alla madre. Se il padre era la radice, lei era il tronco: eretto, saldo, capace di tenere insieme tutto il resto. Non lavorava i campi, non batteva il ferro: eppure, senza di lei, nulla avrebbe trovato posto.
La casa portava il suo segno. Ogni oggetto stava dov’era per una ragione che nessuno metteva in dubbio. Il pane sulla mensola, il secchio vicino alla porta, la brocca allineata sotto il camino: tutto parlava della sua mano. Non c’era rumore nei suoi movimenti, ma una precisione che sembrava venire da un ordine antico.
Quando Darin tornava stanco dalla fucina, la madre non gli chiedeva spiegazioni. Non gli domandava perché avesse lo sguardo perso oltre l’uscio, né perché i suoi silenzi fossero così lunghi. Gli metteva davanti il piatto di zuppa, il pezzo di pane, l’acqua fresca. “Mangia,” diceva. Una parola sola, che bastava a cancellare mille pensieri.
Le mani della madre erano lunghe e sottili, ma forti. Avevano cucito, filato, lavato, rammendato tanto da diventare strumenti precisi. Quando teneva l’ago, il filo passava rapido, lucido alla luce, e pareva che stesse scrivendo un linguaggio segreto sulle stoffe. Quando afferrava un mestolo, mescolava la minestra con la stessa fermezza con cui il padre affondava la zappa: un gesto definitivo, senza esitazioni.
Il volto portava i segni degli anni, ma non erano rughe di stanchezza. Erano linee di attenzione: piccole pieghe agli angoli degli occhi, come tratti di una mappa che indicavano il cammino della pazienza. E negli occhi scuri, sempre vigili, c’era una luce che Darin non aveva mai trovato altrove: non dolcezza, non durezza, ma un equilibrio che li conteneva entrambi.
Una volta, da ragazzo, aveva rovesciato una brocca d’acqua mentre aiutava a sparecchiare. L’acqua aveva bagnato il tavolo e le stoviglie. Aveva atteso il rimprovero, il gesto brusco. Ma la madre non disse nulla. Prese un panno, asciugò piano, ripose la brocca. Poi lo guardò negli occhi e annuì, come a dire: “Ricorda.” Non c’era bisogno di parole: il gesto bastava.
Un’altra volta, più grande, la madre gli mise in mano ago e filo. “Rammenda,” disse, porgendogli un vecchio panno strappato. Darin cercò di cucire, ma i punti erano storti, disordinati. Quando glielo restituì, quasi vergognoso, lei sorrise.
— Non importa che sia bello. Importa che tenga. —
Era la sua filosofia: non le forme, ma la sostanza. Non l’apparenza, ma la durata.
Darin pensava spesso che senza il padre i campi avrebbero patito la fame, ma senza la madre la casa sarebbe morta. Era lei a tenere in equilibrio tutto: i pasti, i silenzi, le parole da dire e quelle da trattenere. Quando la sorella tornava da corte e portava con sé i suoi racconti fatti di veli e sorrisi sottili, era la madre a rimettere tutto al giusto posto con un solo gesto: piegare un panno, sistemare una sedia, spegnere una candela.
E Darin, nel guardarla, imparava che anche l’ordine è una forma di forza. Una forza invisibile, che non si misura in braccia o colpi di martello, ma nel silenzio che impedisce alle cose di cadere in rovina.
La madre non alzava mai la voce, ma quando lo guardava con occhi fermi, Darin si sentiva come davanti a un muro che non avrebbe mai potuto abbattere. Non era severità: era certezza. La stessa certezza che il padre aveva con la terra, lei la possedeva con la casa e con la famiglia.
E in quel silenzio, fatto di gesti e di sguardi, Darin trovava la sua misura: sapeva che senza di lei avrebbe perso il filo, come un tessuto che si disfa senza il nodo finale.
La madre teneva la casa con il silenzio; il padre teneva i campi con la fatica. Ma la sorella di Darin teneva entrambi in sospeso. Il suo ritorno da corte era come l’arrivo di una stagione che non appartiene al calendario: inattesa, luminosa, capace di cambiare l’aria e di lasciare dietro di sé scie difficili da cancellare.
Quando la porta si apriva ed entrava, tutto sembrava mutare. I muri anneriti dal fumo si coprivano di ombre nuove, come se la sua sola presenza costringesse le cose ad assumere un colore diverso. I suoi passi — né rumorosi né leggeri, ma carichi di intenzione — riempivano la stanza come rintocchi. Portava con sé stoffe che nessuno in casa aveva mai toccato: veli sottili che luccicavano alla luce del fuoco, nastri di seta che la madre prendeva tra le dita con esitazione, come se avesse paura di macchiarli.
La sorella non parlava subito. Posava i suoi oggetti, sistemava i capelli, lasciava che l’odore del viaggio — un misto di polvere, spezie e profumo artificiale — si diffondesse nella stanza. Solo dopo, con un gesto rapido, rompeva il silenzio, e allora le parole uscivano a fiume.
Raccontava della corte come se fosse un regno dentro il regno. Un luogo fatto di sale alte con candelieri infiniti, di pavimenti lisci come specchi, di dame che muovevano i ventagli non per rinfrescarsi ma per nascondere i sorrisi velenosi. Raccontava di cavalieri che non combattevano mai, ma che consumavano la loro energia in discussioni infinite, gare di eloquenza e sguardi appuntiti. Descriveva banchetti dove il cibo era meno importante del posto a tavola, dove una sedia spostata significava un’alleanza incrinata.
Il padre ascoltava, immobile, come se quelle storie venissero da un mondo che non lo riguardava. A volte scuoteva appena il capo, altre volte si grattava la barba senza dire nulla. Per lui, la terra era l’unico tavolo che contava: se dava raccolto, c’era pace; se non lo dava, c’era guerra. Tutto il resto erano fumi.
La madre lasciava parlare la figlia, ma i suoi gesti rimanevano fermi. Piega di un panno, sistemazione di un coltello, aggiustamento della legna nel camino: ogni suo movimento era un contrappunto al fruscio scintillante della sorella. Era come se volesse ricordarle che, al di là delle candele e dei ventagli, restavano la cenere e il pane.
Per Darin, la sorella era un enigma. Quella sera la guardava mentre raccontava, e gli sembrava di vederla sdoppiarsi: da una parte la bambina che correva con lui nei campi, coi piedi scalzi e i capelli scompigliati, dall’altra la donna che ora sapeva piegare il capo con grazia studiata, che dosava i sorrisi, che parlava di intrighi con voce bassa ma ferma.
Lui la ricordava con le ginocchia sbucciate, mentre gridava più forte di tutti durante i giochi. La ricordava quando aveva rubato una mela dal frutteto del vecchio Elric e gliel’aveva passata di nascosto, ridendo senza paura. E ora la vedeva tornare a casa con le mani curate, le unghie pulite, i capelli raccolti in trecce ornate da nastri. La distanza tra quei due volti lo confondeva, come se qualcuno avesse cambiato la trama della stessa stoffa.
Una sera d’inverno, la sorella tornò da corte portando con sé un piccolo specchio di rame lucidato. Lo posò sulla tavola e invitò Darin a guardarsi. Lui, con riluttanza, vi si chinò: vide il proprio volto deformato, gli occhi più grandi, la bocca storta. La sorella rise:
— Così ti vedono a corte, fratellino. Tutti piegati, riflessi in superfici che non dicono la verità.
Il padre borbottò, contrariato, e la madre tolse lo specchio, riponendolo in un cassetto. Ma Darin restò a lungo a pensare a quell’immagine: la sua faccia non come era, ma come poteva apparire altrove.
Altre volte, i racconti della sorella accendevano in lui una curiosità che non sapeva domare. Parlava di ambasciatori giunti da feudi lontani, di lingue diverse che si intrecciavano nella stessa sala, di musicisti che facevano vibrare corde di strumenti mai visti nel villaggio. Darin si perdeva in quei dettagli, e quando se ne accorgeva, abbassava lo sguardo per non mostrare quanto fosse attratto.
La sorella, attenta, lo notava. E allora sorrideva con un lampo negli occhi.
— Anche tu, un giorno, vorresti vedere il resto. —
Lui arrossiva, scuotendo la testa.
— Io appartengo a qui. —
Ma dentro di sé sapeva che la frase era più un desiderio che una certezza.
C’erano anche litigi. Una volta, la sorella raccontò di un cavaliere che aveva fatto ridere tutti con un gioco di parole. Il padre scrollò le spalle.
— Non serve ridere, serve mietere.
La sorella sbuffò, con gesto elegante.
— Non capisci, padre. Anche le risate possono tenere insieme un regno.
Il silenzio che seguì fu pesante come una pietra. La madre abbassò gli occhi sul cucito, e Darin trattenne il fiato. Era come assistere a due mondi che non parlavano la stessa lingua.
Un’altra volta, tornò con un nastro rosso di seta. Lo posò sulla tavola e sorrise. La madre lo prese, lo piegò e lo ripose in una scatola, come se quel colore non dovesse contaminare la quotidianità. Darin rimase colpito: per lui, quel rosso era come un fuoco acceso in mezzo alle ombre della casa. Lo fissò a lungo, senza dirlo. E quella notte sognò campi illuminati da un cielo interamente rosso.
Per Darin, la sorella era al tempo stesso ponte e ferita. Ponte, perché attraverso di lei poteva intravedere un mondo che il feudo non gli avrebbe mai mostrato: intrighi, banchetti, lingue diverse, usi e costumi che scivolavano tra le mura del castello. Ferita, perché ogni volta che la vedeva ripartire, sentiva che nessuno apparteneva davvero a Valdoro: nemmeno lei, che vi era nata.
Una sera, mentre lei scioglieva i nastri dei capelli davanti al fuoco, Darin la fissava senza riuscire a staccare lo sguardo. Lei se ne accorse e sorrise in modo obliquo.
— Sai cos’è che manca qui? — disse piano.
— Cosa? — chiese lui.
— Il resto.
Darin non seppe cosa rispondere. Ma quella parola gli si conficcò nel petto. Il resto: qualcosa che non conosceva e che, proprio per questo, cominciò a desiderare.
Quando Darin vedeva la sorella rientrare da corte con i suoi nastri e i suoi racconti lucenti, una parte di lui non riusciva a riconoscerla. Eppure, dietro quella nuova veste, restava sempre la bambina che aveva corso al suo fianco.
Ricordava l’estate in cui, insieme, avevano costruito una capanna nel bosco. Lei aveva preso il comando, ordinando che i rami fossero piegati in un certo modo, che le foglie coprissero bene le fessure, che il pavimento fosse cosparso di aghi di pino per non sporcarsi i piedi. Darin, che allora aveva le mani goffe, obbediva ridendo, e alla fine la capanna si era rivelata più simile a un mucchio storto che a un rifugio. Eppure, quella notte vi avevano dormito dentro, tremando a ogni rumore, stringendosi uno contro l’altra, sicuri che fosse un castello.
Ricordava anche il giorno in cui avevano rubato mele dall’albero del vecchio Elric. Era stata lei a spingerlo, a dire che non ci sarebbe stato nulla di male, che erano solo mele. Quando il vecchio li aveva sorpresi, Darin era fuggito, ma lei si era fermata, aveva sorriso e aveva detto:
— Sono cadute da sole. Noi le abbiamo solo raccolte.
Il vecchio aveva borbottato, ma non l’aveva sgridata. Anzi, le aveva dato una mela intera. Darin, nascosto dietro il tronco, l’aveva vista mordere quel frutto con orgoglio, e da quel giorno aveva capito che sua sorella sapeva cavarsela in modi che a lui sarebbero sempre mancati.
Una volta, durante i giochi in piazza, alcuni ragazzi più grandi lo avevano spinto a terra. Lui, piccolo, si era rialzato con le ginocchia sanguinanti e non aveva saputo reagire. Era stata lei a mettersi davanti, le mani sui fianchi, lo sguardo duro.
— Toccatelo ancora e vi spezzo le dita. — aveva detto.
La minaccia, detta con tanta convinzione, aveva fatto indietreggiare i più forti. Darin non aveva dimenticato quella scena: la sorella, più piccola di molti di loro, ma capace di tenerli a bada con la sola voce.
C’erano anche ricordi più teneri. Le sere d’inverno, quando il vento fischiava tra le assi della casa, lei inventava storie per lui. Storie di cavalieri goffi che inciampavano, di regine che ridevano troppo, di streghe che si confondevano nelle proprie magie. Non erano racconti solenni, ma buffi e strambi, e servivano a farlo ridere quando la paura della notte diventava troppo grande.
Darin custodiva quei ricordi come pietre calde in tasca. Ogni volta che la vedeva trasformarsi in dama di corte, con parole ricercate e sguardi obliqui, pensava a quella bambina che rideva nel bosco, che lo difendeva, che lo faceva ridere nelle notti fredde. E allora la distanza tra loro si faceva meno crudele.
Perché, anche se lei parlava ormai di banchetti e intrighi, lui sapeva che sotto i nastri e i ventagli c’era ancora la sorella che mordeva una mela di nascosto, con il succo che le colava sul mento e il sorriso di chi non teme il mondo.