Capitolo II — Il mondo di Darin

Il mondo di Darin

La casa di Darin stava appollaiata sul margine della piazza come un vecchio gatto che ha trovato un angolo di sole. Le travi annerite parevano ossa scoperte, le finestre strette occhi che avevano visto più inverni che estati. Non c’era ricchezza né povertà: c’era sopravvivenza. Il fumo del camino saliva lento, lasciando strisce di fuliggine lungo i muri come lacrime secche. La porta, massiccia e rigata di graffi, si apriva con un cigolio che ogni sera pareva pronunciare il nome del padre.

L’uomo tornava sempre con la stessa andatura, misurata e ferma, le spalle curve come archi carichi, i piedi piantati nella terra che conosceva a memoria. Era contadino, non filosofo; eppure, quando tastava il grumo di terra fra pollice e indice, pareva interrogare un oracolo. “È asciutta, aspetta la pioggia,” diceva. Oppure: “Ha bevuto abbastanza, non chiedete di più.” Le sue mani non erano solo callose: erano rigate di piccole cicatrici, segni lasciati da zappe, da aratri, da fili spinati di recinti dimenticati. Ogni cicatrice era un rigo di una cronaca che nessuno avrebbe mai scritto.

Darin lo osservava in silenzio, spesso dalla soglia, come si guarda un sacerdote officiare un rito quotidiano. Non era l’ammirazione ad attrarlo, né il timore. Era il rispetto che nasce quando ci si accorge che la vita di un uomo coincide con il suo mestiere. Suo padre non faceva il contadino: era contadino, fino al midollo, fino allo sguardo. E Darin, nel profondo, si domandava se un giorno sarebbe stato lo stesso per lui con il ferro.

La madre era il contrappunto. Laddove il padre scavava e seminava, lei cuciva e sistemava. L’ordine era la sua arma, l’equilibrio la sua legge. Le sue mani, lunghe e sottili, piegavano la tela come si piega il destino di una casa: senza rumore, senza discussione. Le stoviglie, una volta pulite, riflettevano la luce con un candore severo; i pavimenti, spazzati due volte al giorno, non concedevano tregua nemmeno alla polvere più ostinata. La sua voce era breve, mai dura, ma definitiva: “Mangia.” “Riposa.” “Basta.” Ogni parola era un mattone che teneva insieme le pareti invisibili della famiglia.

Darin sapeva che, quando rientrava dalla fucina col volto arrossato e lo sguardo altrove, la madre lo avrebbe accolto con un silenzio che non chiedeva spiegazioni. Gli porgeva il pane come si porge un’àncora, e lui vi si aggrappava senza confessare quanto fosse stanco. Nei suoi occhi non c’era giudizio, ma la pazienza di chi ha imparato a sopravvivere al ritmo delle stagioni senza mai domandare troppo al cielo.

La sorella era un’altra storia. Maggiore di lui di tre inverni, viveva ormai più a corte che in casa. Quando tornava, portava addosso l’odore di spezie e di candele profumate, il fruscio di stoffe che nessuna tessitrice del villaggio avrebbe mai potuto riprodurre. I suoi gesti erano calibrati, le parole misurate con cura. Ma dietro la grazia delle maniere, Darin coglieva ancora la ragazza che correva con lui nei campi, che rideva al vento e si sporcava le mani senza timore. A corte aveva imparato a nascondere quell’anima sotto veli sottili, ma non del tutto.

Quando si sedevano a tavola, il padre parlava poco, la madre quasi nulla, ma la sorella riempiva i silenzi con racconti di dame e cavalieri, di intrighi sussurrati, di feste dove le risate erano più taglienti delle lame. Darin ascoltava con una curiosità che non osava confessare. Quei mondi lontani lo attraevano e lo irritavano: troppo raffinati per la sua pelle ruvida, troppo fragili per i suoi calli. Eppure, ogni volta che lei raccontava di viaggiatori giunti da altri feudi, di signori che discutevano alleanze, il suo cuore sobbalzava. Era la prova che il mondo era più largo delle mura di Valdoro.

C’era una sera in particolare che Darin ricordava come un’incisione. La sorella, tornata da corte, stava sciogliendo i nastri dei capelli davanti al focolare. Lui la fissava, affascinato dal modo in cui la luce del fuoco faceva brillare i fili biondi. Lei, con un sorriso obliquo, gli disse:

— Sai cos’è che manca qui? Il resto.

Darin arrossì, senza capire davvero. Ma quella parola, “resto”, gli rimase cucita dentro come una domanda che nessuno aveva ancora posto.

La famiglia era il suo pilastro e insieme il suo vincolo. Amava i genitori con una fedeltà assoluta, sentiva la sorella come un ponte verso un altrove. Eppure, dentro, c’era sempre quella voce sorda che gli chiedeva: “E tu? Dove starai?” Non era ribellione, non era ingratitudine. Era la consapevolezza che l’amore non basta a riempire il vuoto del destino.

Così, ogni volta che prendeva il martello e lo calava sul ferro, Darin sentiva di compiere non solo un lavoro, ma un atto di fedeltà: al padre, alla madre, alla sorella, al feudo. Eppure, sotto la fedeltà, il richiamo dell’altrove continuava a battere.

La sera, la casa si riempiva di suoni che non appartenevano al giorno. Non il martello né il mantice, non il mormorio dei campi; ma il crepitio del fuoco nel camino, il rumore delle stoviglie sfiorate tra loro, il cigolio lento delle sedie di legno che si spostavano. Era un’orchestra minuta, e Darin l’aveva imparata a memoria: sapeva distinguere il passo del padre sulla soglia, più pesante e più stanco; il fruscio delle mani della madre che lisciavano la tovaglia con gesti rapidi; il rumore della sorella che, tornando da corte, buttava i nastri sopra il banco come se volesse liberarsi di una catena invisibile.

Una sera d’autunno, il vento aveva portato dentro odore di mosto e di foglie marce. Il padre entrò con le mani ancora sporche di terra, la giubba macchiata, e posò un cesto pieno di rape vicino alla porta.

— Non sarà un anno ricco — disse, senza salutare. — Ma basterà.

La madre non replicò. Con un colpo secco della lama tagliò il pane, dividendolo in fette uguali, come se stesse distribuendo giustizia. Poi posò davanti a Darin la sua scodella.

— Mangia.

La sorella, quella sera, parlò a lungo. Raccontava di un banchetto nel castello: dame che ridevano dietro ventagli di seta, cavalieri che gareggiavano a chi diceva la frase più brillante, il signore che osservava tutto senza tradire emozione.

— È un teatro — concluse, con un mezzo sorriso. — Solo che lì non si paga il biglietto: lo si paga col silenzio.

Il padre la guardò come si guarda una pianta che cresce storta ma robusta. Non disapprovava, ma non applaudiva.

— E noi qui paghiamo col sudore — disse soltanto.

Il silenzio che seguì non fu di rottura, ma di inevitabilità. Darin abbassò lo sguardo, fissando la scodella: le parole del padre erano pietre, le parole della sorella veli, e lui si sentiva nel mezzo, come se avesse un piede sulla terra e uno sospeso in aria.

Altre sere erano più tranquille. La madre cuciva vicino al fuoco, con l’ago che scintillava come una stella breve a ogni movimento. Il padre sonnecchiava su uno sgabello, le mani ancora nere, e il respiro lento. La sorella raccontava piano di un nuovo vestito di una dama, o di un litigio sussurrato tra due consiglieri. Darin ascoltava senza interrompere. Non aveva domande, ma dentro di lui quelle storie scavavano solchi profondi: erano finestre aperte su un mondo che non conosceva, e anche se lo irritavano, non poteva smettere di ascoltarle.

A volte, la sorella lo provocava.

— Tu non resisteresti un giorno a corte. — gli diceva, con un sorriso che voleva essere leggero. — Non sapresti nemmeno come piegare il ginocchio davanti al signore.

— E forse non vorrei piegarlo. — rispondeva Darin, senza alzare lo sguardo.

Il padre allora apriva un occhio e lo richiudeva subito, come a dire: “Attento a ciò che pensi, figlio.” La madre, invece, continuava a cucire, e ogni punto dell’ago pareva sigillare la discussione.

Le mattine cominciavano presto. Il padre usciva prima dell’alba, e Darin spesso lo seguiva fino alla porta, solo per vederlo camminare verso i campi. L’uomo non diceva nulla; solo un cenno con la mano, e poi il rumore dei passi che sprofondavano nella terra umida. La madre, intanto, preparava la zuppa d’orzo o il pane, e l’odore caldo riempiva la stanza prima ancora che la luce del sole entrasse.

Una volta, la sorella tornò da corte con un nastro rosso di seta. Lo posò sulla tavola, e per un attimo la stanza cambiò volto: quel colore acceso, in mezzo al grigio del legno e al marrone della terra, sembrava un intruso. Darin lo fissò a lungo, quasi infastidito, e la sorella rise.

— È solo un pezzo di stoffa, non un sortilegio.

— Qui sembra un sortilegio. — rispose lui.

La madre prese il nastro, lo piegò con cura e lo ripose in una scatola. Non disse nulla, ma Darin capì che per lei quel colore era troppo vivo per stare lì in mezzo ogni giorno.

C’erano anche momenti in cui l’amore della famiglia pesava. Darin li amava con fedeltà assoluta: il padre che conosceva la terra, la madre che teneva la casa, la sorella che portava notizie di mondi lontani. Ma proprio quell’amore era anche catena: perché il loro sguardo, senza saperlo, lo teneva legato. Non avrebbe mai voluto deluderli, eppure sapeva che un giorno avrebbe dovuto scegliere tra la fedeltà e la voce che lo chiamava da oltre.

E in quelle sere, quando il fuoco si spegneva e la casa si riempiva di ombra, Darin restava a lungo sveglio, ascoltando il respiro degli altri. In quel respiro, ritmato e sicuro, sentiva tutto il conforto della sua vita. Ma insieme, sentiva anche il limite.

Il villaggio di Valdoro si aggrappava alla collina come un nido di pietra, annerito dal fumo dei camini e dal respiro dei secoli. Le case, basse e gonfie, sembravano gobbe di animali addormentati, coperte da tetti di paglia che il vento scompigliava come crini selvaggi. Ogni porta portava i segni del tempo: graffi, fenditure, toppi di ferro arrugginito che parevano cicatrici di battaglie minime, combattute contro l’acqua e l’inverno.

La piazza era una bocca spalancata, pavimentata a metà con lastre storte e a metà con terra battuta. Al mattino, saliva da lì un coro di odori che si pestavano tra loro: il grasso delle carni appese alle gancere, il miele che colava dai barili, la lana bagnata stesa ad asciugare, il tanfo delle bestie che venivano portate per la vendita. Le galline correvano fra i piedi dei mercanti come se avessero diritto a far parte della contrattazione, e i cani magri si aggiravano tra i carretti con gli occhi lucidi e affamati.

Oltre la piazza, le mura del feudo si alzavano come denti marci ma ancora saldi, incrostate di licheni verdi e macchie scure d’umidità. Le feritoie erano occhi senza pupille, sempre aperti, e nelle giornate di vento emettevano un fischio basso che sembrava un lamento antico. La guardia che vi stazionava — uomini con corazze graffiate e barbe mal curate — appariva più parte delle mura che esseri vivi: sagome di ferro e carne, immobili, annoiate, pronte a ringhiare solo quando qualcuno si avvicinava troppo.

Il castello, sopra, era un pugno di pietra che schiacciava tutto sotto di sé. Le torri si innalzavano come dita nodose, annerite e gonfie di muschio, e le finestre strette brillavano qua e là di riflessi torbidi, come occhi che non vogliono mostrarsi. I corvi avevano fatto dei merli le loro tribune: gracchiavano a stormi, sporchi e solenni, come ministri di un culto macabro.

Darin conosceva bene anche i margini: le stalle dove i cavalli sbuffavano con vapori caldi che si mischiavano al fumo dei camini, i campi che iniziavano subito oltre le case, seminati di figure curve — contadini piegati come se portassero sulle spalle l’intero orizzonte. Nei solchi umidi brillavano chiazze d’acqua, e i corpi degli uomini parevano crescere dalla terra stessa, come radici storte che non osavano sollevarsi.

C’era un vicolo che amava percorrere al tramonto, quando il sole feriva le pietre basse e faceva brillare di rosso le pozze d’acqua rimaste dalla pioggia. Le ombre delle case si allungavano e si intrecciavano come dita scheletriche, e i gatti apparivano silenziosi sui tetti, pronti a gettarsi giù con un miagolio improvviso. In quei momenti il villaggio non gli pareva prigione, ma creatura viva, grottesca e affascinante, che lo teneva tra le sue viscere.

E ancora, le sere d’inverno, quando la neve imbiancava i tetti e le lanterne illuminavano i vicoli, il feudo assumeva un aspetto spettrale e magnifico: i camini fumavano come torri di incenso, la piazza si copriva di silenzi, e i passi scricchiolavano con un suono che sembrava provenire da ossa antiche. Darin guardava tutto questo e sentiva di esserne parte, nonostante il richiamo che lo spingeva oltre.

Il villaggio non era fatto solo di pietra e legno, ma di volti che si incrociavano ogni giorno come maschere logore in un teatro senza fine. Darin li conosceva uno a uno, e ognuno gli restava impresso con una nitidezza quasi crudele.

C’era il mugnaio, con il ventre rotondo e la faccia sempre spolverata di farina, che parlava muovendo le mani come pale del mulino: larghi gesti circolari, con cui mescolava le parole al vento. I bambini ridevano di lui, perché la sua voce si perdeva nel frastuono delle macine, e pareva che urlasse persino quando sussurrava.

C’era Mael la tessitrice, curva come l’arco del suo telaio. Le sue dita, sottili e nodose, scivolavano sui fili come zampe d’insetto, e il ticchettio della sua macchina era un battito costante che accompagnava le giornate di chi abitava nelle case vicine. Nessuno ricordava quanti anni avesse: alcuni dicevano cento, altri che fosse nata vecchia. Lei rideva senza denti, mostrando le gengive scure come la terra, e continuava a tessere, tessere, come se il mondo fosse un drappo incompleto di cui solo lei conosceva il disegno finale.

C’era il bottaio, che odorava sempre di resina e vino versato. Le sue braccia, spesse come tronchi, portavano cicatrici di coltelli e schegge, e quando rideva — cosa rara — lo faceva con un suono cavo, come un barile colpito con un bastone. I ragazzi dicevano che, di notte, parlasse ai suoi tini come a figli ribelli, e che li minacciasse con la cinghia se scricchiolavano troppo.

C’era infine la vecchia Sima, che si trascinava lungo i vicoli con un bastone storto e un odore pungente di erbe secche. Dicevano fosse una guaritrice, altri una strega. Darin la salutava sempre, e lei lo fissava con occhi acquosi, troppo grandi per la faccia raggrinzita. Una volta gli disse:

— Tu porti negli occhi un vento che non viene da qui. —

E se ne andò, ridendo di gola. Darin non osò ripeterlo a nessuno.

Il mercato settimanale era un altro spettacolo, diverso ogni volta eppure sempre uguale. I venditori urlavano con voci arrochite, tentando di superarsi a forza di decibel: “Pesce fresco! Ancora vivo!” gridava uno, mentre il suo pesce aveva occhi vitrei da giorni; “Panni color del cielo!” strepitava un altro, mostrando teli grigi come la cenere. Gli odori erano una guerra: il dolce del miele combatteva con il rancido delle pelli conciate, il fumo dei bracieri con l’acre del formaggio stagionato fino a diventare pietra.

Darin camminava tra le bancarelle come tra corridoi di un labirinto odoroso. Ogni voce, ogni colore, gli restava dentro come una pennellata. Ricordava le mani rugose della venditrice di mele, gonfie di anelli d’ottone, o i denti mancanti del macellaio che sorrideva sempre, come se non avesse nulla da nascondere. Persino le galline che razzolavano fra i piedi erano personaggi: piume arruffate, occhi rapidi, becchi che punzecchiavano monete cadute a terra.

Di sera, il villaggio mutava volto. I vicoli si stringevano sotto la luce gialla delle lanterne, e le case parevano piegarsi l’una verso l’altra per sussurrarsi segreti. Le ombre si allungavano sulle pietre, trasformando i contorni familiari in figure minacciose. I cani abbaiavano a ogni scricchiolio, e gli ubriachi dell’osteria inciampavano sui ciottoli, lasciando dietro di sé risate spezzate. Il fumo dei camini si intrecciava con la nebbia bassa, creando veli che nascondevano e rivelavano a intervalli, come sipari che non smettevano mai di aprirsi e chiudersi.

Darin, in quei momenti, sentiva il villaggio come un organismo intero: respirava, russava, sognava. E lui, parte di quel corpo, ne avvertiva il battito. Non solo come prigione — no, quella era solo una parte —, ma come ventre materno, caldo e soffocante insieme.

Il signore del feudo era una presenza lontana ma onnipresente. Abitava il castello, quella massa di pietra che si stagliava sopra il villaggio come un pugno serrato. Non scendeva spesso tra la gente, ma quando lo faceva, il silenzio calava come neve improvvisa. Gli uomini si raddrizzavano, le donne abbassavano lo sguardo, i bambini smettevano di correre. Era un uomo alto, dal volto scavato come una roccia e gli occhi fissi, che non cercavano mai di piacere. La barba scura gli scendeva fino al petto, incrostata spesso di briciole di pane o di vino rappreso. Portava mantelli pesanti, ornati non di gioielli ma di segni di caccia: denti di cinghiale, corna di cervo, piume di rapace. Il suo passo faceva scricchiolare il selciato come se non camminasse ma schiacciasse la terra.

Darin lo aveva visto poche volte da vicino. Ricordava una di quelle: il signore attraversava la piazza a cavallo, seguito da un paio di scudieri. La folla si era aperta ai lati, e lui era passato in mezzo come una lama. Il cavallo aveva nitrito, mostrando i denti bianchi come ossa. Darin aveva incrociato per un istante lo sguardo del signore: non c’era rabbia né benevolenza, ma qualcosa di più cupo, come se gli occhi non vedessero un ragazzo, ma una pietra, un albero, un qualsiasi ostacolo sul cammino.

I soldati del feudo, invece, erano parte del paesaggio quotidiano. Li si vedeva alle porte, nelle ronde lungo le mura, seduti sull’orlo dei pozzi a pulirsi le unghie con i pugnali. Le loro cotte di maglia erano sempre un po’ arrugginite, i gambali segnati dal fango. Alcuni portavano baffi lunghi e ridicoli, che arricciavano con orgoglio, altri avevano nasi rotti e cicatrici che raccontavano risse più che battaglie. Ridevano forte tra loro, bestemmiavano, si addormentavano durante i turni. Eppure, quando qualcuno provava a contravvenire alle regole, scattavano rapidi, come cani addestrati.

Darin, da bambino, li aveva temuti. Crescendo, imparò a vederli come uomini comuni, incatenati a un mestiere che puzzava di ferro e solitudine. Una volta, passando vicino alla porta del nord, ne aveva osservato uno che si toglieva lo stivale: dal piede gli colava pus giallastro, e il soldato imprecava a denti stretti. Non era più un eroe con la spada, ma un uomo che soffriva e puzzava, e quella visione gli rimase impressa.

Il villaggio era pieno anche di bambini. Strillavano nelle strade, correvano scalzi dietro alle oche, saltavano nei mucchi di paglia ridendo come demoni allegri. Erano facce rosse di sole, mani nere di terra, ginocchia sempre ferite. Alcuni si divertivano a inseguire i cani randagi con bastoni, altri si arrampicavano sui carri fermi fingendosi guerrieri. Darin li guardava e vi rivedeva se stesso: una furia di gambe e risate, un bisogno continuo di correre, come se il mondo fosse troppo stretto. Quando li vedeva cadere, rialzarsi e ricominciare, gli veniva un misto di tenerezza e malinconia.

C’era un bambino in particolare, figlio di un oste, che parlava con voce stridula e inventava storie assurde: draghi nelle stalle, streghe nelle botti, tesori sepolti sotto la piazza. Gli altri lo deridevano, ma Darin no. Dentro di sé pensava che forse quel piccolo bugiardo vedeva cose che gli altri non sapevano vedere.

E poi c’erano i mendicanti. Si trascinavano lungo i vicoli come ombre storte. Uno portava sempre un sacco vuoto e lo scuoteva davanti a chi passava, come se fosse pieno di gemiti. Un altro non aveva gambe e si spostava con le braccia, lasciando scie di fango e di sangue sui ciottoli. Una donna cieca cantava sempre la stessa litania, un canto monotono che sembrava provenire dal ventre della terra. La gente li scansava, ma Darin non riusciva a non guardarli. Gli sembravano statue vive, scolpite dalla disgrazia. Una volta, mentre passava vicino al pozzo, la donna cieca gli tese la mano. Lui le diede un pezzo di pane senza dire nulla. Lei annuì, come se avesse visto il suo volto.

Tutto questo — il signore, i soldati, i bambini, i mendicanti — era il feudo. Una commedia grottesca e maestosa, dove ogni figura recitava il proprio ruolo senza accorgersene. Darin camminava in mezzo a loro come spettatore e attore insieme. Ogni dettaglio gli restava dentro: un gesto, un odore, un suono. E dentro di lui si accumulava, giorno dopo giorno, la certezza che il villaggio non fosse solo un luogo, ma un libro di carne e pietra che lui non aveva ancora finito di leggere.

La notte a Valdoro scendeva con passi d’animale. Non era mai improvvisa, ma si insinuava lenta, scivolando tra i vicoli e sulle tegole, fino a occupare ogni fessura. Le case si chiudevano come palpebre, e dai camini saliva un fumo denso che si mescolava con l’oscurità, facendola più pesante. Nel silenzio, restavano solo due voci: il vento che si infilava tra le mura e i cani che abbaiavano a intermittenza, come sentinelle nervose.

Darin, steso sul suo giaciglio di paglia e lana, ascoltava tutto questo. L’odore acre del fumo, il crepitio delle assi sotto i passi dei genitori, il respiro regolare di sua madre che dormiva nella stanza accanto: erano il tessuto che lo avvolgeva, eppure non bastavano a chiuderlo dentro. Perché, appena spegneva gli occhi, qualcosa si accendeva dentro la sua mente.

A volte era un sogno di distese infinite: prati che non finivano mai, dove l’erba era alta fino al petto e piegata da un vento che non portava odore di terra, ma un profumo diverso, acuto e metallico. Camminava, nel sogno, senza mai raggiungere nulla, eppure con la certezza che da qualche parte qualcuno lo stesse aspettando.

Altre volte era il mare — un mare che non aveva mai visto, ma che conosceva come si conosce un dolore futuro. Onde immense, scure, che si abbattevano con rombi di tuono, e lui in piedi su una riva che non riusciva a definire, con i piedi bagnati e gli occhi fissi su un orizzonte che brillava di luci sconosciute. Si svegliava con le lenzuola umide di sudore, il cuore che batteva come se avesse davvero lottato contro la tempesta.

E poi c’erano i sogni muti, quelli fatti solo di luci e ombre. Fili luminosi che scendevano dal cielo come corde, puntini lontani che palpitavano e si muovevano come se volessero disegnare una scrittura incomprensibile. Darin si trovava spesso a fissarli, nel sogno, con una sensazione precisa: erano segni. Ma segni di cosa? Non lo sapeva, e forse era meglio così. Al risveglio restava in lui il bruciore di una lingua non imparata.

Non erano solo i sogni. C’erano notti in cui restava sveglio, immobile, ascoltando il feudo che russava. Il vento entrava dalle fessure del legno e gli carezzava la pelle come dita fredde. In quei momenti, ogni rumore diventava più grande: lo scricchiolio di una trave era un grido lontano, il passo di un topo un esercito in marcia. Gli pareva che il villaggio intero, sotto la coltre della notte, si trasformasse in una creatura diversa, più antica e più enigmatica.

Era allora che il richiamo dentro di lui si faceva più forte. Non era voce, non era suono. Era come un battito che non veniva dal suo cuore, ma da un luogo remoto, eppure legato a lui. Non chiedeva di correre, non chiedeva di fuggire. Chiedeva solo attenzione.

Una volta, sognò suo padre nei campi, ma i solchi non erano di terra: erano fenditure di roccia, nere e taglienti, e il padre vi seminava semi luminosi che bruciavano appena toccavano il fondo. Un’altra volta, sognò sua madre che piegava lenzuola di luce, e ogni piega formava montagne e valli. Si svegliò tremando, con le immagini ancora addosso come una veste troppo stretta. Non osò raccontarlo a nessuno: i sogni, a Valdoro, si dicevano solo quando parlavano di grano o di pioggia.

Altre notti, invece, erano più semplici ma non meno inquietanti. Restava sveglio a fissare il soffitto, cercando di contare i nodi del legno, e nel frattempo immaginava. Si vedeva camminare lungo strade che non conosceva, parlare con persone dai volti sfocati, respirare un’aria più leggera. Non erano visioni nitide: erano come braci che brillano sotto la cenere, pronte a divampare al primo soffio.

Ogni tanto, si alzava in silenzio e andava alla finestra. Da lì vedeva il bosco, scuro e impenetrabile, e sopra il bosco la montagna, grande come un dio addormentato. E più in alto ancora, le stelle. Non le guardava come facevano i vecchi, cercando presagi o segni del tempo: le guardava come si guarda un enigma. C’erano troppi punti per non nascondere una scrittura.

Si chiedeva, senza dirlo a voce, se quelle luci non fossero in realtà occhi, o fuochi lontani, o altro ancora. Poi tornava al suo giaciglio, e chiudeva gli occhi. Ma le stelle restavano dietro le palpebre, pulsanti, come se non volessero lasciarlo andare.

Darin non era superstizioso, ma sapeva che qualcosa in lui non era allineato agli altri. Gli altri parlavano di semine e raccolti, di ferri e cavalli, di tasse e giornate di lavoro. Lui ascoltava e annuiva, ma dentro di sé portava un’altra misura: notti insonni, sogni che non aveva il coraggio di confessare, immagini che nessuno avrebbe capito. Non era ribellione, non era vergogna. Era semplicemente la sua natura.

E così, notte dopo notte, imparò a convivere con quel doppio battito: quello del villaggio che dormiva e quello del richiamo che non dormiva mai.

Il mattino dopo, il mondo tornava a parlare con la voce del ferro. Il fuoco era già desto nella fucina, e Ralf muoveva il mantice con lentezza regolare, come se stesse insegnando al fuoco a respirare. Darin prese in mano la tenaglia, afferrò il ferro incandescente e lo posò sull’incudine.

Il primo colpo riecheggiò forte, riempiendo lo spazio. TANG. Un suono chiaro, che si arrampicava lungo le pareti e si spandeva fuori dall’uscio. Un altro colpo, poi un altro ancora. Ogni scintilla che volava in aria era una stella caduta, e Darin la seguiva con lo sguardo finché non si spegneva, come se quelle scintille volessero ricordargli le luci che aveva visto nei sogni.

Il sudore gli colava sulla fronte, le mani gli bruciavano per il calore del metallo, ma non si fermava. Il ritmo era preciso, inesorabile. Ralf annuì senza parlare: il ragazzo teneva bene il passo.

Eppure, sotto la regolarità dei gesti, Darin sentiva qualcos’altro. Ogni colpo era come un’onda che lo riportava indietro, alle notti insonni, alle immagini confuse che lo visitavano. Il ferro si piegava sotto la forza del martello, ma lui non sapeva se il suo destino si sarebbe piegato allo stesso modo.

Si fermò un attimo, il respiro corto. Guardò fuori dall’uscio: il villaggio era già vivo, il mercato cominciava a riempirsi, le voci si intrecciavano. Oltre le case, i campi brillavano di rugiada. Più in là ancora, scuro e compatto, il bosco.

Lo fissò per un istante, come se attendesse una risposta. Poi tornò al ferro.

Il martello calò di nuovo, preciso, netto. Il suono rimbombò nella fucina e gli entrò nelle ossa.

Quel suono era gabbia, era rifugio, era promessa.

E Darin, nel silenzio del suo cuore, capì che il ferro non era l’unica cosa che un giorno avrebbe dovuto piegare.