Capitolo I — La Fucina

Il ferro gridava quando toccava l’incudine. Non un grido umano, non un rumore della terra: era un suono più antico, un ruggito metallico che sembrava provenire dalle viscere del mondo. Ogni colpo di martello faceva vibrare l’aria, e le pareti annerite della fucina restituivano l’eco come un coro invisibile. Era un canto rude, primordiale, che solo chi viveva lì dentro ogni giorno poteva comprendere.
L’odore era la seconda voce di quel luogo: acre, denso, fatto di carbone consumato, pelle bruciacchiata e sudore umano. Entrava nei vestiti e non li lasciava più, si attaccava ai capelli, alle mani, persino alla lingua. Era un odore che segnava gli uomini: chi lavorava nella fucina lo portava addosso come un marchio. Bastava annusare l’aria di un vicolo per capire chi fosse stato alla forgia, anche a distanza di ore.
Il maestro Ralf dominava quello spazio come un re senza corona. Largo di spalle, la barba cosparsa di scintille grigie che il tempo vi aveva depositato come cenere, aveva movimenti precisi, regolari, sicuri. La sua figura pareva scolpita dalla stessa materia che forgiava: dura, inflessibile, ma capace di calore improvviso. Non serviva che guardasse l’apprendista: sapeva dal ritmo dei colpi se Darin teneva il passo. E Darin lo teneva, con mani forti e callose, il sudore che gli colava sulle tempie e lo sguardo che però, a volte, si perdeva oltre la fessura della porta.
La fucina era un organismo vivo. Il fuoco respirava: si gonfiava e si ritraeva a ogni colpo di mantice, come un polmone infuocato. L’incudine aveva cicatrici profonde, scavate da decine d’anni di lavoro; ogni solco era una storia, ogni graffio una testimonianza. I muri erano neri, ma punteggiati qua e là da riflessi argentei delle scorie schizzate nei secoli. Persino il pavimento, di terra battuta, era indurito come pietra dal continuo calore.
Le scintille erano lucciole ribelli: saltavano in aria e si spegnevano in un attimo, ma in quell’attimo illuminavano il volto di Darin, facendolo sembrare ora più vecchio, ora più giovane, ora un guerriero, ora un prigioniero. Ogni scintilla era un lampo di destino che subito svaniva, lasciando soltanto buio e sudore.
Ralf era taciturno, ma ogni tanto rompeva il silenzio con frasi che sembravano scolpite anch’esse.
— Il ferro non va piegato, ragazzo. — Diceva senza distogliere lo sguardo. — Va convinto. È un nemico testardo, ma anche il nemico più duro, se lo ascolti, si arrende.
Darin annuiva, ma dentro pensava che forse quelle parole non riguardavano solo il ferro.
Il lavoro era fatto di rituali. Prima il fuoco: svegliarlo, nutrirlo, domarlo. Poi il metallo: estrarlo, osservarne il colore, aspettare il punto giusto in cui il rosso diventa quasi bianco, quando il ferro non urla troppo forte ma neppure tace. Poi l’incudine: il suono che cambia a seconda della forza, della precisione, del ritmo. Ogni fase era un passo di danza, e chi sbagliava inciampava non nei piedi, ma nelle mani.
Darin conosceva quei passi. Li aveva imparati uno dopo l’altro negli ultimi anni. Eppure, nonostante la disciplina, ogni tanto lo sguardo scivolava fuori, oltre l’uscio. Da lì si vedeva il villaggio: le case basse, le strade di terra battuta, le mura del feudo che si innalzavano come guardiani. Più in là ancora, i campi verdi, e all’orizzonte la linea scura del bosco.
Una scintilla gli colpì il polso, bruciandolo. Darin trattenne un’imprecazione e continuò a martellare. Il dolore era lieve, ma gli rimase sulla pelle come un segno. Guardò il puntino rosso vivo sulla carne, e un brivido lo percorse. Per un istante gli sembrò l’occhio della porta, quello che aveva visto anni prima. Scosse la testa, cercando di ricacciare via il pensiero.
Ralf notò il movimento, ma non disse nulla. Si limitò a battere un colpo più forte, come a ricordargli che la mente deve restare dove stanno le mani.
Eppure Darin non riusciva a restare solo lì. Mentre martellava, la sua mente correva: a sua madre che quella mattina aveva preparato la colazione con il sorriso stanco di chi conosce i giorni prima ancora che comincino; a suo padre, che lavorava nei campi e portava addosso l’odore della terra; a sua sorella, che viveva a corte e tornava solo raramente, sempre con racconti che sembravano provenire da un altro mondo.
Lavorava bene, rispettava i genitori, obbediva al signore del feudo, ma dentro portava un’ombra. Non era ribellione, non era noia. Era come una voce sussurrata da lontano, da dietro i confini del mondo conosciuto. Ogni colpo sul ferro era anche un colpo su quel pensiero, ma invece di spegnerlo, lo faceva vibrare di più.
Ralf era uomo di poche parole, ma ognuna delle sue valeva più di dieci di un altro. Lo chiamavano “il fabbro del feudo”, ma per tutti era molto di più: consigliere tacito, custode di segreti, depositario di una sapienza che non stava nei libri ma nelle mani. Le sue mani erano enormi, con vene spesse come radici di quercia, eppure sapevano muoversi con delicatezza. Con quelle mani aveva ferrato cavalli da guerra, riparato aratri, forgiato lame per cavalieri e coltelli da cucina per contadini. Non faceva distinzione: ogni oggetto riceveva la stessa cura.
Aveva la barba scura punteggiata di bianco, ma non era solo l’età ad averla scolorita: erano le scintille della forgia, che vi cadevano dentro come stelle cadenti e lasciavano tracce di cenere. Gli occhi, invece, erano ancora giovani: chiari, lucidi, capaci di vedere se un ferro era pronto o se un apprendista stava mentendo.
Quando lavorava, Ralf sembrava un sacerdote. Non parlava quasi mai, ma ogni tanto rompeva il silenzio con sentenze che restavano.
— Il ferro è come un cavallo selvaggio: se lo costringi, si spezza. Se lo guidi, ti porta lontano. —
— La fiamma non è nemica, se impari a darle da mangiare al momento giusto. —
Darin ascoltava in silenzio. Non sempre capiva il senso profondo di quelle frasi, ma se le portava dentro. C’era qualcosa in quel modo di parlare che andava oltre il lavoro. Ralf non stava solo insegnando un mestiere: stava insegnando a vivere.
A volte, durante le pause, il maestro si sedeva su uno sgabello basso, con la pelle lucida di sudore, e raccontava storie. Non storie eroiche, non grandi imprese: storie di ferri piegati, di clienti bizzarri, di cavalli impazziti. Raccontava di quando, da giovane, aveva seguito il suo maestro in un altro feudo per forgiare le armi di una piccola guerra locale. Non parlava della battaglia: parlava della notte passata a dormire sotto il cielo, con il martello sotto la testa come cuscino.
— Ricorda, ragazzo — disse una volta, masticando lentamente un pezzo di pane duro. — Non sono i colpi che ricorderai, ma le attese. Le ore in cui il ferro riposa, e tu con lui. Quelle ti insegnano la pazienza.
Darin annuiva, ma dentro non riusciva a immaginare una vita fatta solo di attese e ferri. Lo rispettava, lo stimava, ma sapeva che non voleva diventare lui.
Il rapporto tra loro era fatto di poche parole e molti gesti. Ralf non lodava mai apertamente, ma il silenzio era già un premio. Se Darin sbagliava, non c’erano urla, solo un’occhiata e un colpo secco del martello che diceva: “Così no”. Se invece il ragazzo faceva bene, Ralf si limitava a lasciare che fosse lui a battere più a lungo, a dare più colpi, come un segno di fiducia.
Un pomeriggio, quando il sole era alto e il calore nella fucina era quasi insopportabile, Darin lasciò sfuggire un sospiro lungo, stanco.
— Ti pesa il ferro? — chiese Ralf, senza sollevare lo sguardo.
— No, maestro. — esitò. — Mi pesa… il pensiero.
Ralf batté ancora due colpi, poi si fermò. Appoggiò il martello e si voltò verso di lui.
— Sei giovane. È giusto che tu abbia pensieri. Ma ricorda: il ferro non mente mai. Il ferro ti tiene nel presente.
Darin abbassò lo sguardo, senza rispondere. Nel suo cuore, però, sentiva che non bastava. Il presente era una catena troppo stretta.
Spesso i clienti entravano nella fucina portando con sé nuove occasioni di dialogo. Un contadino che chiedeva un nuovo aratro raccontava dei raccolti; un soldato che faceva sistemare la spada parlava di pattuglie lungo i confini; una donna che commissionava un coltello da cucina portava con sé i pettegolezzi del villaggio. Ralf ascoltava poco, ma sapeva cogliere il necessario. Darin, invece, divorava ogni parola: non perché gli interessassero i raccolti o i litigi tra vicini, ma perché in quelle voci c’era il mondo che gli mancava. Ogni racconto era una finestra aperta, e lui vi si affacciava con avidità.
C’erano anche momenti di silenzio assoluto. Ore in cui nessuno parlava, in cui il rumore del martello era l’unico linguaggio. A Darin quei silenzi pesavano. Si sentiva ingabbiato dentro il respiro del fuoco, come se la sua vita non fosse altro che un susseguirsi di colpi sull’incudine. Ralf invece pareva trarne pace. Quel contrasto diceva tutto della distanza tra loro: maestro e discepolo, sì, ma anche due uomini che guardavano la vita da prospettive opposte.
Il ferro gridava sotto i colpi, e quel grido si mescolava con i pensieri del ragazzo. Darin batteva, sollevava, ribatteva, e il ritmo del lavoro diventava il ritmo della sua stessa mente: costante, ostinato, inevitabile. Eppure, anche in quell’ostinazione, c’era uno scarto, un’incrinatura che non si vedeva con gli occhi ma che lui sentiva dentro.
Era un giovane alto e saldo, il corpo già temprato dal lavoro e dalla disciplina. Le braccia portavano i segni della fatica, le mani callose sapevano reggere martelli e tenaglie come se fossero prolungamenti naturali del suo corpo. Ma nello sguardo, che spesso si perdeva oltre l’uscio della fucina, c’era una luce inquieta. Non di ribellione, non di noia: una tensione che non trovava posto nelle parole semplici del villaggio.
Gli altri lo chiamavano “irrequietezza giovanile”. Sorridevano, pensando che col tempo gli sarebbe passata: bastava il matrimonio, i campi da curare, un mestiere sicuro. Eppure Darin sapeva che non era così. Non era soltanto desiderio di correre nei campi o di visitare un feudo vicino. Era come un suono costante, un mormorio che nessun altro pareva udire: un richiamo che veniva da oltre le mura, oltre i campi, forse oltre il bosco stesso.
Il padre gli aveva insegnato la pazienza del contadino. Uomo di terra, conosceva le stagioni come un vecchio amico: tastava la zolla umida e sapeva dire se l’annata sarebbe stata buona, guardava le nuvole e indovinava se la pioggia sarebbe durata. Con lui Darin aveva imparato che il mondo si misura con gesti lenti, con attese che richiedono fede. Eppure, mentre lo guardava tornare dai campi con la schiena curva e le mani nere di terra, si chiedeva se quella fosse davvero la sola strada che la vita poteva offrire.
Dalla madre aveva preso l’ordine e il senso di giustizia. Ogni cosa, in casa, trovava posto grazie a lei: il pane allineato sulle assi, la tela piegata con precisione, le parole dette al momento giusto e mai di più. Quando lui tornava dalla fucina con la pelle che odorava di fumo e sudore, lei non lo rimproverava per lo sguardo perso oltre la soglia. Gli posava davanti la scodella di zuppa e diceva soltanto: “Mangia.” In quel gesto semplice, Darin sentiva il peso e la forza di un amore che non chiedeva nulla in cambio.
La sorella maggiore, invece, era già parte di un altro mondo. Lavorava a corte, al servizio della casa del signore, e tornava a casa solo di rado. Ogni volta portava con sé il luccichio di notizie, di storie, di abiti e maniere che non appartenevano al villaggio. Parlava di intrighi e di feste, di dame che ridevano dietro ventagli, di cavalieri che discutevano come se il destino si decidesse a tavola. Darin la ascoltava, a metà tra fascinazione e disagio. Era la prova vivente che un altrove esisteva, anche se non sapeva se lo avrebbe mai raggiunto.
Dentro di sé, Darin si riconosceva come timido e onesto. Non era portato alla menzogna: ogni volta che provava a piegare la verità, il peso della bugia gli restava addosso come un ferro malfatto. Non amava i litigi, ma la slealtà lo feriva come uno schiaffo. Eppure, allo stesso tempo, aveva un desiderio che non sapeva confessare a nessuno: quello di vedere, di sapere, di camminare oltre.
Di notte, quando la fatica del giorno non riusciva a stenderlo subito, restava sveglio a fissare le travi annerite del soffitto. Talvolta sognava paesaggi che non conosceva: cieli immensi, mari mai visti, distese senza confini. Si svegliava con il cuore che batteva forte, incapace di dire se fosse un sogno o un ricordo. E al mattino, alla fucina, ogni scintilla che saltava dal ferro gli sembrava un piccolo segnale di un mondo più grande che lo stava chiamando.
Il feudo lo conosceva bene: le case basse, la piazza, il castello che dominava dall’alto, i campi che si stendevano a perdita d’occhio. Era il suo mondo, e gli voleva bene. Ma allo stesso tempo lo sentiva stretto, come una cintura che tiene dritti ma toglie respiro. Così, mentre l’acciaio si piegava sotto i colpi del martello, Darin si chiedeva se davvero il suo destino fosse restare lì, a plasmare ferri di cavallo e chiodi, oppure se un giorno avrebbe varcato quelle mura per scoprire cosa c’era oltre.
Il corpo di Darin era una macchina temprata dal fuoco e dalla terra. Ogni muscolo portava il segno del lavoro: le spalle larghe, le braccia coperte di vene, le mani callose, piene di piccole cicatrici, tagli, bruciature. Non erano segni vistosi, ma un alfabeto discreto che raccontava ogni giorno speso nella fucina. Se si osservava da vicino, si poteva leggere: qui una scintilla lo aveva morso, qui un ferro gli aveva sfuggito, lì un chiodo lo aveva punito per la fretta.
Quando camminava, i passi erano sicuri ma non arroganti. Non aveva ancora imparato il passo dei soldati — duro, cadenzato, come se volessero lasciare impronte eterne —, né quello dei nobili, che fluttuavano più che camminare. Il suo era un passo di lavoro: pesante abbastanza da farsi sentire, leggero abbastanza da non consumare inutilmente le gambe.
Gli altri ragazzi lo guardavano con un misto di rispetto e ironia. Era alto e ben piantato, più forte della media, ma la forza non lo rendeva aggressivo. Non cercava risse, non alzava la voce. Quando qualcuno gli pestava i piedi o lo prendeva in giro, Darin si limitava a sorridere, e quello era spesso più disarmante di un pugno. La forza, per lui, non era mai stata uno strumento per dominare, ma un peso da gestire.
Alla fucina, il maestro Ralf ripeteva spesso:
— Non basta la forza, ragazzo. Se il ferro non lo senti, lo spezzi.
E Darin lo sapeva. Ogni colpo di martello non era solo potenza: era misura, era ascolto. Un colpo troppo forte e il ferro si incrinava; troppo debole e non cambiava forma. Così, giorno dopo giorno, aveva imparato a domare la propria energia, a trasformarla in disciplina. Non era un esercizio solo di braccia, ma di mente. Forse per questo la fucina lo teneva stretto e lo irritava allo stesso tempo: era gabbia e palestra, limite e orizzonte.
L’infanzia di Darin aveva l’odore del fieno bagnato e del pane che raffredda sulla finestra. La mattina, d’estate, usciva con i piedi nudi e la camicia troppo grande, e il villaggio gli sembrava una mappa pronta a essere percorsa: il pozzo come un punto, la bottega del mugnaio come un quadrato, il ruscello una linea che tagliava tutto e portava via le cose leggere. Con altri due o tre coetanei — facce sporche, ginocchia sbucciate, gli occhi pieni di futuro — si cercavano senza chiamarsi, perché in certi anni ci si trova come si trovano le rondini: per ricorrenza e istinto.
C’erano mattine in cui correvano fino al fiume, e lì il tempo si trasformava. Guardavano la corrente portare giù rametti e petali, lanciavano foglie come fossero barche e ci scommettevano sopra: quella che toccava prima il sasso piatto vinceva, e al vincitore spettava il privilegio di non fare nulla per cinque minuti, che a quell’età è un lusso smisurato. Darin si costruiva navi con due stecchi incrociati e una foglia a vela; stava ad ascoltare il suono dell’acqua tra i massi, dando nomi alle pozze profonde, come fanno i bambini che inventano geografie senza bisogno di mappe.
Nei giorni di mercato, invece, il divertimento erano i colori e gli odori. Il banco delle stoffe sembrava una festa: sete ruvidissime e lini candidi, rosso che pareva masticabile e blu che sapeva di sera. Il venditore di spezie, con le dita macchiate di curcuma, apriva sacchetti e lasciava salire nell’aria nuvole profumate; i ragazzi ci infilavano dentro il naso, starnutivano, poi ridevano come se avessero fatto chissà quale bravata. Darin, a differenza degli altri, faceva una cosa in più: guardava i volti dei forestieri. Non fissava, non interrogava: osservava. Lo incuriosivano i piedi impolverati di chi veniva da lontano, gli accenti che allungavano le vocali, i modi di indicare con la mano. Si chiedeva da dove venissero, cosa avessero visto. Non avrebbe saputo dirlo, ma già allora cercava negli altri la misura del mondo.
La prima volta che rubarono mele, lo fecero per rito più che per fame. L’albero era nel frutteto del vecchio Elric, un uomo spigoloso che difendeva il suo raccolto come difenderebbe il cane il suo osso. I ragazzi strisciarono tra i filari con tutta la cautela che sanno avere i colpevoli per gioco. Berek — che già allora aveva l’abitudine di comandare — salì per primo, agile come un gatto; Tomas rimase di guardia; Darin si chinò a raccogliere quelle che cadevano. Quando la tasca fu piena e il cuore altrettanto, comparve Elric, bastone in mano, la voce che graffiava l’aria. Ci fu una fuga scomposta, frutti rotolati a terra, un paio di insulti imparati male. Più tardi, lontano, Berek volle ridere. Darin invece s’era fatto serio: aveva una mela ancora in tasca. Non dormì bene. Il giorno dopo tornò da solo, bussò alla porta del vecchio e gliela restituì, dicendo goffamente che l’aveva trovata. Elric lo guardò come si guarda un animale che sorprende: non disse grazie, non lo rimproverò. Gli mise in mano due mele buone e chiuse la porta. Darin capì due cose: che la vergogna pesa più della paura e che ci sono debiti che si saldano prima ancora delle parole.
D’inverno, la piazza diventava un campo di battaglia: palle di neve ben tese partivano da dietro le botti, colpivano e si scioglievano in applausi e vendette. Darin non era il più rapido a lanciare, ma era quello che non si nascondeva mai dietro i grandi: stava in mezzo, prendeva e dava, con quella lealtà istintiva che i compagni finirono per attribuirgli come un mestiere. Quando qualcuno si faceva male davvero, lui era il primo a sciogliere il gioco, a portare dentro, a cercare un panno. “Sei vecchio dentro,” gli disse un giorno una donna, vedendolo aiutare un bimbo piangente. “No,” pensò lui, “sono solo stanco delle urla.”
C’erano anche giochi più quieti, da figli di contadini. Il tiro ai sassi: scegliere il più piatto, lanciarlo sullo stagno e contare quante volte rimbalzava. Darin passava lunghi minuti a studiare gli angoli, ad allineare il tiro, a calcolare senza parole. Gli piaceva quel modo di cercare il risultato senza rumore. Quando riusciva a far rimbalzare cinque, sei volte, non esultava: metteva il sasso in tasca, come si conserva una formula che ha funzionato.
Con Tomas aveva un’intesa particolare. Il ragazzo, più magro e più serio, parlava poco ma vedeva molto. Con lui, Darin sapeva stare zitto. Non c’era bisogno di riempire i buchi. Camminavano uno accanto all’altro lungo il margine dei campi, scambiandosi osservazioni che sembravano niente e invece dicevano: “ci sono”. Se un giorno Tomas mancava, Darin avvertiva la mancanza come si avverte l’assenza d’un odore che c’è sempre stato: un vuoto discreto.
Berek, al contrario, era il tamburo. Alzava la voce, sfidava, faceva girare tutto più in fretta. Senza di lui, molte imprese non sarebbero mai cominciate. Con lui, molte finivano in rimproveri e ginocchia sbucciate. Darin gli voleva bene a modo suo: lo teneva vicino e un poco a distanza, come si fa con il fuoco d’inverno. Sapeva che il coraggio, senza misura, tradisce più di quanto aiuti.
Le donne del villaggio li chiamavano “i tre” quando dovevano lamentarsi, e “i ragazzi” quando dovevano perdonare. Avevano un talento naturale per farsi trovare dove non dovevano: sotto i carri, dietro le porte socchiuse, sui muretti proibiti. Eppure, a differenza di altri, passavano sempre a salutare gli anziani seduti sulla botte, a chiedere “serve qualcosa?” con la malcelata speranza di sentirsi dire “no”. Darin, più degli altri, restava volentieri un minuto in più a sentire le storie lente degli uomini col bastone: racconti di raccolti antichi, di freddi che spaccavano, di estati che bruciavano. Non cercava la morale; voleva solo imparare il passo lungo del tempo.
Una volta, alla festa di fine mietitura, Darin fu scelto per reggere uno dei pali del tendone. Era un compito semplice e noioso: restare fermo finché gli uomini legavano le corde e i bambini correvano in cerchio. Lui rimase, le braccia tese, i muscoli che bruciavano piano. Gli passavano accanto carretti, cesti, risate, un cane vagabondo. In quel restare, simile e diverso dal tenere la tenaglia in fucina, capì d’essere capace di quel tipo di pazienza che non si vede. Se ne ricordò, poi, quando gli veniva voglia di buttare tutto in un grido: “Puoi reggere.”
Un altro piccolo episodio gli restò incollato alla memoria come pece. Un vecchio soldato, tornato zoppo da chissà quale scaramuccia, cercava di attraversare la piazza in un giorno di fango. Si impantanò con la stampella, gli altri ridevano. Darin scese dal muretto, non disse nulla, gli mise un braccio sotto e lo portò di là, due passi, tre. Il soldato non ringraziò; fece solo un cenno con la testa, duro. Darin non ne ebbe bisogno: c’è una gratitudine che si dice con i muscoli per non rovinare la dignità.
Crescendo, le giornate si fecero più piene e i giochi più rari. Ma la forma che gli avevano dato non si perse. La mattina, presto, passava talvolta per i campi prima di entrare in fucina, salutava suo padre da lontano, e quello rispondeva con un gesto appena, come si saluta il sole che sorge: non serve chiamarlo per nome. Darin si chinava, prendeva un ciuffo d’erba tra le dita, lo spezzava, ne annusava l’odore verde. Quel gesto, che non era suo, gli faceva bene: gli ricordava che la terra ha un modo di parlare più lento delle domande.
A scuola — quella che la vecchia Mael faceva nella casa grande con una lavagna di ardesia e tre panche — Darin non era il migliore né l’ultimo. Scriveva con fatica ma con determinazione; contava bene, perché i numeri gli sembravano oggetti veri. Ma ciò che lo teneva desto erano le storie: quando Mael, stanca di correggere, posava il gesso e cominciava a raccontare di viandanti, di tempeste, di scoperte. Non erano chissà quali epopee; erano storie di uomini che avevano visto qualcosa che non avevano ancora parole per dire. In quei momenti, Darin si raddrizzava sulla panca, e gli altri ridevano: “Guarda come ascolta!”. Lui fingeva di non sentire.
Crescendo, imparò anche l’arte di perdere. Non risse: partite infinite di dadi finti con i semi, corse dove qualcuno partiva in vantaggio, competizioni di tiro al cerchio truccate dai più furbi. Perdere gli dava un fastidio fisico, ma non esplodeva. Si allenò a rimanere, a stringere i denti, a dire “bravo” senza strozzarsi. Non per bontà, ma per scelta: non voleva insegnare al cuore a mordere ogni volta che gli toglievano un pezzo.
Se gli si chiedeva quale fosse stata la sua felicità di bambino, non avrebbe saputo indicare un giorno preciso. Forse una sera d’autunno, quando il villaggio aveva l’odore di mosto e di fumo, e la madre metteva sul tavolo una pagnotta grande come una ruota e il padre tornava coi passi stanchi e corti, e la sorella raccontava piano senza sprecare nomi. In quella stanza stretta, il mondo stava al suo posto. E lui con esso. Poi, come succede con tutte le felicità oneste, la porta si riapriva ogni mattino, e ricominciava il lavoro.
I coetanei, guardandolo, lo chiamavano “onesto” con la stessa intonazione con cui si dice “testardo”. Non capivano che le due cose, in lui, erano la stessa. Quando prometteva, manteneva. Quando sbagliava, cercava di rimettere a posto, anche a costo di passarci per sciocco. Se gli sembrava di essere stato ingiusto, non dormiva; se pensava di aver deluso qualcuno, gli tremava la mano mentre prendeva il martello. Era un modo stancante di stare al mondo, ma era suo.
A volte, seduto sul muretto di pietra lisciata dalla pioggia, guardava il via vai della piazza: galline che scappavano, bambini che inciampavano, donne con secchi pieni, uomini che parlavano con le mani. Non cercava significati; cercava il ritmo. Ogni luogo ha un suo battere. Valdoro batteva in quattro tempi: mattina di faccende, mezzodì di stanchezza, pomeriggio di ritorni, sera di racconti. Lui si chiedeva dove si nascondesse, in quel tempo, lo spazio per certe domande che non volevano diventare discorsi. Non si rispondeva. Scendeva dal muretto, entrava in fucina, riprendeva il martello.
Eppure, anche allora, c’era in lui una specie di fedeltà al villaggio che gli stringeva il petto. Non era il patriottismo urlato, non l’orgoglio cieco. Era l’attaccamento alle persone che sapeva nominare: al mugnaio che fingeva di imbrogliare e poi arrotondava; alla vecchia Mael che tirava dritta anche quando le caviglie le facevano male; al cane senza padrone che dormiva davanti alla porta del panettiere e non rubava mai; alle travi della sua casa che scricchiolavano con lo stesso suono ogni notte. Se un giorno se ne fosse andato — pensava senza parola — avrebbe dovuto portarsi dietro tutto questo in una tasca grande come il cielo.
Così maturò, giorno su giorno, come maturano i frutti che nessuno guarda crescere. Non capì il momento esatto in cui smise di essere bambino. Forse quando Ralf gli posò in mano un martello più pesante e non glielo tolse più. Forse quando vide negli occhi del padre un rispetto nuovo, quello che gli uomini riservano a chi sta prendendo il proprio peso. Forse quando, una sera, si rese conto che il suo sguardo non saltava più come un grillo, ma si posava e teneva.
Restava, sotto tutto, una corrente nascosta. Non un progetto, non un disegno. Una disponibilità. Se il mondo avesse bussato, non lo avrebbe trovato addormentato. Questa certezza — piccola e ostinata — era il suo segreto più tenero. Non la chiamava con nessun nome. La teneva in tasca come la pietra piatta che rimbalza bene sull’acqua: pronta, un giorno, a scivolare nel posto giusto con l’angolo giusto.